UNA LETTURA CORPOREA DEL DISTURBO DA DIPENDENZA AFFETTIVA

Come tutti i tipi di disturbi psicologici, anche nel caso dell’addiction è possibile riscontrare nel corpo difficoltà riconducibili alla relazione e la cui regolarizzazione, effettuata anche per mezzo di esercizi fisici, può influire positivamente nel recupero del disturbo specifico.

 

Nello scrivere questo breve articolo non posso fare a meno di alcune brevi premesse che, presentando il mio punto di vista, rendano più facilmente comprensibile quanto andrò dicendo.

Tali premesse sono tanto più necessarie quanto più mi rendo conto di un taglio particolare, e tuttora imperante, nella lettura delle cose psicologiche, nonostante i notevoli cambiamenti che sollecitano una collaborazione tra i diversi punti di vista.

La realtà psicologica è comunemente intesa come il frutto del funzionamento del cervello e quindi è spesso presentata come un epifenomeno. Ora, dato che il modo di considerare le cose psicologiche determina anche il tipo di approccio terapeutico, e quindi il tipo d’intervento che s’intende adottare nel contesto di un disturbo, ed essendo il cervello un continuo processo chimico, diventa facile pensare alla pillola che risolve il problema.

Ebbene, io non credo che quella che definiamo “la mente” sia prodotta dal solo funzionamento cerebrale e non credo che il cervello sarebbe in grado di funzionare senza il corpo; inoltre sono convinto assertore del fatto che sia il corpo a contenere il cervello e che insieme, cioè tutto il corpo, compongono l’essere che siamo nella sua capacità di leggere il reale e di interagire.

Così sono convinto che non esiste il cosiddetto “controllo dell’Io” se non anche nella capacità della persona di controllare gli occhi, il corpo e le sue funzioni integrate. Mentre quello che definiamo il Sé credo che sia relativo al sentimento che accompagna lo svolgimento delle funzioni stesse e che la sua consapevolezza sia molto più antica di quanto non vogliamo ammettere; forse risale a prima della nascita. Perciò penso che il Sé sia precedente alla nascita dell’Io e che ambedue le istanze, le loro funzioni e i processi, sono legate anche alle espressioni corporee e non credo quindi che siano solo aspetti cognitivi e mentali della nostra personalità. Questo vuol dire anche che i disturbi, e quello che definiamo disfunzionale nell’economia psicologica di una persona, deve essere verificabile anche nella dimensione corporea.

Perciò, quando nel corso dell’articolo parlerò dell’Io e delle sue funzioni, farò riferimento al complesso dell’organismo e alla complessità delle sue funzioni, sia psichiche sia fisiche, e le une avranno sempre un legame di rimando nelle altre, nel senso che il fisico è nello psichico e viceversa. Così tutte le istanze che definiamo psicologiche penso che debbano avere un’eco nel corpo allo stesso modo di come tutto ciò che avviene nel nostro corpo è rappresentato nella mente.

In sintesi, penso che ogni tentativo teorico speso nella definizione e analisi di eventuali disturbi debba tenere conto contemporaneamente dei livelli sia corporei che mentali e lo sforzo terapeutico debba a sua volta tenere conto di ambedue le dimensioni.

Questo deve valere anche per la “dipendenza affettiva”.

Spesso il DAP (Disturbo da Attacchi di Panico) è associato, se non addirittura assimilato, al disturbo che si rivela attraverso una difficile costanza dell’oggetto e che è definibile con la sindrome che esso genera. Appunto disturbo derivante da un’eccessiva dipendenza affettiva.

In realtà esistono similutidini e differenze in queste due evenienze come del resto in tante altre manifestazioni; differenze che vanno annotate e di cui sarebbe opportuno tenere conto in un eventuale intervento sia psicologico sia medico.

Come per la dipendenza affettiva, possiamo dire che l’attacco di panico non è una malattia ma il modo di reagire di alcune persone a determinati eventi della loro vita. Allo stesso modo altre persone, piuttosto che con il panico, reagiscono con lo sconforto, l’accoramento e a volte anche con la conversione.

In questi casi sindromici “quasi” simili la distinzione potrebbe essere ricercata nella genesi dei singoli disturbi supponendo sviluppi alternativi che rendano conto più puntualmente di alcuni aspetti.

Proviamo ad ipotizzare comportamenti risalenti ai primi anni dalla nascita.

Ciò che secondo il mio punto di vista ci porta ad accomunare erroneamente il disturbo di dipendenza affettiva al disturbo di panico, dipende dal fatto che ambedue i disturbi hanno un qualcosa a che vedere con la relazione. Infatti ambedue i casi di disturbo sono, dalla relazione e nell’ambito della stessa, scatenati anche quando, in apparenza, non esistono elementi evidenti cui è possibile ricondurre lo scatenamento.

Ciò che invece notiamo immediatamente come differente sono le diverse manifestazioni comportamentali di ansia, nel caso della dipendenza, e destabilizzazione nel caso del panico.

In alcuni casi la destabilizzazione espressa nel panico viene interpretata come un’espressione esasperata dell’incapacità di fare a meno dell’oggetto e quindi a volte, il portatore di panico viene incluso nella categoria dei sofferenti di addiction.

La manifestazione panica penso possa essere ricondotta all’ipotesi formulata nei miei articoli precedenti pubblicati sul sito della LIDAP ai seguenti indirizzi: http://www.lidap.it/ciardiello.html – http://www.lidap.it/ciardiello2.html).

In quegli articoli ipotizzo che il vissuto di panico possa essere ricondotto ad una realtà infantile in cui l’aggressività prodotta dalla frustrazione materna sia rivolta contro l’Io. Nell’addiction invece ho l’impressione che la dinamica infantile si forma intorno alla difficoltà interna del soggetto di pervenire alla costruzione di un Io che possa fare a meno del supporto di un elemento esterno di relazione che funga da “collante”.

In pratica, mentre nel panico l’aggressività derivante dalla disattenzione o dalla fuga o dalla distrazione materna (o della figura primaria di relazione) si rivolge contro l’Io sottraendogli il collante, che normalmente è vissuto come il “dono” che il bambino ha fatto alle figure importanti, nel caso dell’addiction è possibile ipotizzare che quel bambino non è stato in grado di produrre il collante o non è stato messo in grado di produrlo dalle figure di cura. Per cui la funzione di collante delle funzioni dell’Io continuano per tutta la vita ad essere svolte dalle figure significative di volta in volte diverse. È come dire che la persona affetta da questo disturbo continua a “proiettare” nelle/sulle persone che trova significative della sua vita, la capacità aggregante della sua personalità. Capacità che avrebbe dovuto imparare a fare propria in qualità di dono per la figura primaria.

Questa modalità di relazione è appartenuta praticamente a tutti nel corso della propria esistenza. Cioè ognuno di noi ha avuto un momento della propria vita in cui era importante proiettare sugli altri una capacità aggregante; era come un delegare agli altri significativi, il papà, la mamma o altri che si prendevano cura di noi, la responsabilità di ciò che eravamo.

Era da queste persone che ci arrivava la conferma, la rassicurazione, il supporto e l’appoggio di ciò che eravamo e che dovevamo essere.

Nella relazione di fiducia che si costruiva, e si confermava ogni giorno, si specchiava costantemente l’immagine e l’idea di ciò che eravamo e che negli anni ognuno di noi ha imparato a fare propria. Così io oggi probabilmente sono anche ciò che vedevo rispecchiato negli occhi di mia madre quando mi guardava quindi sono, nel contempo, ciò che voglio, ciò che ho voluto ma anche ciò che lei ha voluto che io diventassi e questo specialmente nelle prime fasi della mia esistenza..

Il momento successivo della nostra crescita è quello che vede il bambino acquisire tanta fiducia in sé, anche grazie a questi rimandi familiari, da cominciare a sentire come un requisito proprio e personale la costituzione di un essere unico. Impara a farlo anche appropriandosi gradatamente del comportamento dei genitori che dall’inizio della vita controllano le sue azioni e ne perfezionano i comportamenti. È un po’ come quando impariamo il corretto uso del cucchiaio che da piccoli si realizza con un graduale controllo interiore di volta in volta confermato dai genitori.

Ora, mentre nella manifestazione di panico si può ipotizzare che l’affetto della figura di riferimento è venuto meno dopoche il bambino ha raggiunto la costruzione dell’io, con la definitiva acquisizione della capacità di fornire le singole funzioni dell’Io del materiale aggregante (la “colla” che, per esempio, tiene insieme la capacità del bambino di tenere in mano il cucchiaio e, dall’altro lato, la capacità di compiere un gesto del braccio che porta il cucchiaio alla bocca. La gioia espressa dagli occhi della madre funge da alimento, sostegno e solidificazione per l’acquisizione di questa capacità che è ulteriormente sostenuta, nel bambino, dal desiderio di gratificare con l’autonomia la madre), nel caso dell’action invece si può pensare che la figura di sostegno non abbia operato alcun “tradimento” nei confronti del bambino, ma che, molto più semplicemente, non ha mai stimolato in lui l’acquisizione della capacità aggregante.

I motivi possono essere stati diversi.

La madre (o chi per lei) potrebbe aver avuto bisogno della dipendenza del bambino perché questa la faceva sentire utile, importante e poteva contribuire a dare senso alla sua vita.

Da questo punto di vista non dobbiamo cercare le colpe perché, malgrado l’apparenza, tale atteggiamento è molto più frequente di quanto non si immagini e inoltre non è affatto consapevole. Il bisogno di dare senso a un’esistenza non è solo delle madri e dei padri ma fa parte dell’essere uomini e individui. E un figlio dà un tale senso all’esistenza che a volte ci riempie tutta la testa e ci lasciamo prendere a tal punto da quest’amore da non riuscire più a distinguere la funzionalità di ciò che dovremmo fare ed essere per lui.

D’altro canto invece può essere accaduto che non ci fosse tempo per questo figlio; che gli eventi della vita fossero così esigenti da richiedere tutta l’attenzione di questa madre, che doveva farsi veramente in quattro, per la sopravvivenza.

Situazioni incresciose e di poco alimento (affettivo emozionale ma anche materiale, di cibo vero) possono aver determinato carenze di sostegno (anche fisico quindi) emotivo in relazione proprio ai vissuti di integrazione funzionale dell’Io. Quando questi eventi si presentano nel periodo di maggiore sensibilità evolutiva nella vita di una persona, e distolgono le attenzioni genitoriali da questa dinamica costruttiva, si rischia che il bisogno di supporto aggragante si “incisti” nella personalità di un individuo e si prefiguri come il frattale maggiormente ridondante nella sua vita.

Quali le conseguenze?

A parte gli aspetti psicologici come l’estrema dipendenza dalle figure importanti e il precipitare di crisi depressive reattive, mi sembra interessante il prefigurare la possibilità di far risalire questo disturbo di “mancanza di stabilità” (emotiva?) alla “mancanza di equilibrio”.

Questa lettura del disturbo ci consentirebbe di pensare ad un intervento terapeutico che preveda la disamina di esperienze psicologiche, associate ad esercitazioni anche fisiche, di appoggio, equilibrio, e focalizzazione dell’attenzione.

Queste esperienze, mirate per ogni singola persona e condotte con competenza tecnica, potrebbero rappresentare valide esperienze per dare un senso all’introiezione della capacità di farcela da soli.

Ulteriori suggestioni inerenti l’articolo possono essere sollecitate dalla lettura dei seguenti libri:

Ramachandran V. S., Blakeslee S., “La donna che morì dal ridere”, Saggi Mondadori, 1999.

Lowen Alexander, “Il linguaggio del corpo”, Feltrinelli Ed. XVIII, 1998

Glen O. Gabbard, “Psichiatria psicodinamica”, Raffaello Cortina Ed., 1995.

Dott. Giuseppe Ciardiello

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

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