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LA RELAZIONE VITTIMA-CARNEFICE NELLA COPPIA: HEGEL E DOSTOEVSKIJ

Per parlare del rapporto vittima-carnefice, nella dipendenza affettiva e nella codipendenza, partiamo dalla relazione servo-signore formulata dal filosofo Hegel. Se inizialmente, in tale relazione, il padrone è il padrone ed il servo è il servo, quindi sono entrambi in ruoli distinti e contrapposti, il successivo sviluppo della relazione porta il padrone, secondo Hegel, ma non solo lui, in base a sitauzioni concrete e reali, ad essere dipendente dal servo, a non possedere più l’autosufficienza. Questo processo, se non viene interrotto dal padrone stesso, tramite l’acquisizione di una consapevolezza circa il proprio stato di uomo dipendente dal lavoro di un altro uomo, può essere fatale. Ecco allora che il padrone diviene schiavo, ed il servo, pur non divenendo mai realmente padrone, potrebbe comunque avvalersi del suo potere per trarne cospicui vantaggi.

Questo non và inteso solo in senso economico ma anche relazionale ed emotivo in quanto, sopratutto nella coppie con problematiche di dipendenza o codipendenza, conferisce alla vittima un elevata dose di potere nell’amito della relazione. Secondo Hegel, il potere è una medaglia dalle due facce, la faccia dell’uno consiste nel possederlo, la faccia dell’altro nell’esserne del tutto privo.

Nella coppia questa relazione fà sì che il partner carnefice attinge il sentimento del proprio valore dall’oppressione del partner vittima. unica modalità per non correre il rischio di diventare vittime e sottomettere l’altro. In maniera simile Hegel spiegava perchè i padroni siano riluttanti a liberare i propri schiavi.

Uno degli esempi più magistrali di tale tipo di relazione lo troviamo nel capolavoro di Dostoevskij “La Mite “. Esso è uno dei racconti artisticamente più struggenti, profondi e intensamente poetici del grande scrittore russo che racconta la triste e tragica vicenda sentimentale di un usuraio quarantenne e di una ragazzina sedicenne, orfana di entrambi i genitori e costretta al matrimonio dopo aver venduto all’uomo dei pegni tutto ciò che possedeva.

Dostoevskij in questo racconto mescola e confonde , il male e il bene, la vittima ed il carnefice. In un lungo, inininterrotto monologo, trabocca l’anima dell’usuraio, l’unico protagonista della scena, lasciato solo di fronte alla morte, per lui assurda, della giovane moglie:

“Immaginate un uomo, accanto al quale giace, stesa su di un tavolo, la moglie suicida, che qualche ora prima si è gettata dalla finestra. L’uomo è sgomento e ancora non gli è riuscito di raccogliere i propri pensieri…Ecco, parla da solo, si racconta la vicenda, la chiarisce a se stesso…” (F.Dostoevskij)

Esce fuori, come un fiume in piena, il suo passato infelice, le offese subite quando prestava servizio militare, l’inattesa eredità paterna, la possibilità del riscatto col banco dei pegni. Avere la possibilità di diventare un usuraio e vantarsene, per poter gettare in faccia al mondo i suoi ideali traditi in gioventù:

“Voi mi avete respinto, voi, gli uomini, mi avete bandito col vostro tacito disprezzo. Ai miei impulsi appassionati avete risposto con un’offesa mortale. Ora io, dunque, ho il diritto di rinchiudermi in una torre d’avorio…nella proprietà acquistata coi miei soldi”.

Anche l’amore e il matrimonio con la giovanissima orfana diventano un affare come un altro, almeno all’inizio. Certo che voleva bene a quella giovane creatura, anche se era un amore distorto, malato, nato da un rapporto di dipendenza, dove lui solo poteva esercitare un potere, lui solo poteva disporre della sua vita, ferirla col suo ostinato silenzio, isolarla nei suoi timidi tentativi di instaurare un rapporto alla pari. Paradossalmente proprio quando il cinismo e la viltà del suo comportamento hanno compromesso per sempre la dignità e infranto i sogni della timida ragazza, facendola lentamente precipitare nella melanconia e nella depressione, l’uomo scopre di amarla per davvero. Ma è troppo tardi: lei si ammala di febbre cerebrale e si suicida gettandosi dalla finestra, con in braccio l’icona sacra della vergine, l’unico pegno che non aveva mai considerato “in vendita”, dono della madre.

Come per tutti i capolavori della letteratura, non c’è una sola chiave di lettura che possa inquadrare questo racconto. Resta intatta l’enigmaticità di una storia d’amore impossibile, nata fra due esseri umani lontanissimi nei loro estremismi, incapaci di comunicare le loro diversità, vittima e carnefice e per questo accomunati da un tragico destino. E’ anche il dramma sentimentale ed emotivo dell’unica voce narrante, quella dell’usuraio, uomo forte esteriormente, ma che si scopre sempre più fragile e strisciante, smarrito di fronte alll’innocenza di quella ragazza mite, così mansueta in apparenza, ma capace di forti sentimenti e che, pur di non cedere ai propri ideali, sceglie di togliersi la vita.

Concluderei la disamina su tale tipo di relazione accennando alla Sindrome di Stoccolma che prende il nome da una rapina in Banca effettuata da due rapinatori nel 1973 nella capitale svedese. I rapinatori erano due e furono bloccati dalla polizia per 6 giorni all’interno della banca, unitamente a 4 impiegate prese in ostaggio. Questa “convivenza forzata” portò alla nascita di una relazione particolare, quasi intima, fra sequestratori e sequestrate. Infatti, quanto tutto terminò, nessuna delle impiegate volle collaborare colla polizia per la cattura dei rapinatori. Addirittura nessuna fornì notizie utili per effettuare l’identikit dei rapinatori, nonostante quest’ultimi, erano a volto scoperto all’interno dei locali della banca. A distanza di tempo una di loro arrivò a sposare uno dei due rapinatori. Tale episodio di cronaca rappresenta, quindi, un esempio di dove possa arrivare la relazione vittima-carnefice.

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

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