PSICODRAMMA E SOCIODRAMMA

INCONTRO

“Un incontro di due:

occhi negli occhi, volto nel volto.

E quando tu sarai vicino:

io coglierò i tuoi occhi,

e li metterò al posto dei miei,

e tu prenderai i miei occhi

e li metterai al posto dei tuoi.

Così io guarderò te con i tuoi occhi

e tu guarderai me con i miei.

Così persino la cosa comune impone il silenzio

e il nostro incontro rimane la meta della libertà:

il luogo indefinito, in un tempo indefinito,

la parola indefinita per l’uomo indefinito.”

( J.L. Moreno 1985: 7 ).

 

Psicodramma, Sociodramma e Sociometria debbono la loro origine e la loro prima diffusione nel mondo alla persona di J.L. Moreno , psichiatra di origine romena, che svolse la sua pratica e ricerca professionale prima nella Vienna degli anni ‘20 e successivamente negli Stati Uniti d’America.

Riferimenti storici: j.l. Moreno

J.L.Moreno nacque a Bucarest nel 1889 ma trascorse l’infanzia e la prima giovinezza a Vienna dove ebbe la sua formazione culturale e professionale, studiando dapprima filosofia e laureandosi successivamente in medicina. Uomo portato a condividere il clima ed i fermenti culturali della Vienna degli anni ’20, fondò insieme a Martin Buber e ad altri intellettuali viennesi la rivista “Daimon” ed iniziò le prime esperienze di avanguardia teatrale alternandole al lavoro clinico come medico psichiatra. Nel 1925 si trasferì negli Stati Uniti a causa del clima politico ed autoritario che si andava profilando in Europa e che non facilitava lo sviluppo delle sue idee e dei suoi progetti. Lavorò dapprima con lo Psicodramma con i bambini del Plymouth Institute of Brooklyn e con gli adulti alla clinica psichiatrica dell’ospedale Monte Sinai di New York. Continuava nel frattempo il lavoro di integrazione di teatro e Psicodramma all’Improptu Group Theatre presso la Carnegie Hall (New York).

Nel 1936 aprì una clinica privata a Beacon (vicino a New York) dove realizzò il primo teatro di Psicodramma. Gradualmente Beacon divenne un centro di formazione per Direttori di Psicodramma e punto di incontro e formazione per clinici provenienti da tutto il mondo. Oltre a “Il teatro della spontaneità” (scritto negli anni di Vienna), pubblicò “Psycodrama I”, “Psychodrama II”, “Psychodrama III” (opere sistematiche sullo Psycodramma) e “Who shall survive?”, opera nella quale sistematizza le ricerche e le esperienze sociometriche, sociodrammatiche e terapeutiche svolte presso il riformatorio femminile di Hudson. Fu il fondatore della prima organizzazione internazionale di terapia di gruppo (lo I.A.G.P. = International Association of Group Psychotherapy), che attualmente riunisce terapeuti e conduttori di gruppo dei più diversi orientamenti teorici. Nel maggio 1974 moriva a Beacon.

Teatro della spontaneità e giornale vivente

I presupposti della nascita di psicodramma e sociodramma vanno ricercati nell’intersezione dei due orientamenti culturali e ideali compresenti in Moreno:

? l’interesse per la sperimentazione teatrale ad orientamento sociale;

? l’interesse per la sofferenza psichica.

Negli anni venti Moreno creò un gruppo teatrale che realizzava rappresentazioni con il pubblico, senza utilizzare copioni, sceneggiature, ma creando al momento l’azione drammatica a partire da tematiche sociali rilevanti o da temi suggeriti dal pubblico. Nasceva il teatro della spontaneità, matrice di fertili intuizioni creative sul ruolo e sul funzionamento della dinamica psichica, sulla funzione della spontaneità e della creatività, sul gruppo e su tutti quei concetti sui quali si edificherà lo psicodramma.

” Il giornale vivente ” è il prototipo del teatro della spontaneità. Gli attori con l’ausilio del pubblico rendevano concreti, percepibili e ”drammatici” alcuni fatti e situazioni di cronaca, oggetto d’interesse e dibattito per il pubblico.

Il teatro della spontaneità si orientò successivamente alla rappresentazione ed alla elaborazione, mediante il coinvolgimento del pubblico, di problemi e situazioni esistenziali emergenti “in situ” dai partecipanti. Gli attori si trasformavano progressivamente da “dramatis personae” in IO ausiliari, specchi stimolanti per i drammi reali della vita di tutti i giorni delle persone. Il pubblico da una posizione passiva si trasformava in attore partecipe, assumendo il ruolo di contenitore o di cassa di risonanza, come nel coro della tragedia greca.

E’ in questo ambito di fermento creativo che Moreno scopre la valenza terapeutica dei metodi di azione . E’ noto a tal riguardo il caso di Barbara, che consentì a Moreno di sviluppare la metodica dello psicodramma terapeutico. Barbara, giovane attrice del “Teatro della spontaneità”, si era da poco sposata con uno scrittore, George. Ella ricopriva sempre il ruolo di fanciulle gentili ed ingenue. Un giorno il marito George, in preda a disperazione, si confidò con Moreno rilevandogli che a casa la moglie si mostrava una donna intrattabile, dal linguaggio volgare, che addirittura lo picchiava quando cercava di fare l’amore con lei.

Qualche giorno dopo il giornale riporto in cronaca nera la notizia dell’assassinio di una prostituta per mano del suo protettore. Moreno ebbe un’intuizione: convincere Barbara a rappresentare la parte della prostituta. Così fece: ed ella ricoprì quel ruolo con tale forza, stimolando l’attore che faceva da protettore ad una risposta così frenetica che al culmine della scena del delitto il pubblico si alzò in piedi gridando: “basta!”.

A casa, dopo lo spettacolo, temporaneamente liberata della sua carica aggressiva, Barbara fu insolitamente tenera con George. Moreno continuò a farle rappresentare caratteri violenti, ed ella diventava sempre più trattabile quando si allontanava dal teatro. Un giorno Moreno invitò George sul palcoscenico accanto a Barbara, per duplicare gli episodi della loro vita privata. “Alcuni mesi più tardi” – egli racconta – “essi si sedevano con me in teatro, pieni di gratitudine. Avevano riscoperto se stessi e il loro rapporto”.

L’episodio di Barbara aveva concretizzato un elemento che rimane fondamentale nello psicodramma, un elemento già noto agli antichi drammaturghi greci: la “catarsi”.

Lo psicodramma

Psicodramma deriva dai termini greci “PSYCHE'” (psiche o anima) e ”DRAMA” (azione). E’ quindi quel metodo che consente di esplorare il mondo psichico attraverso l’azione. Fu negli Stati Uniti, a contatto con le problematiche della malattia mentale, che lo psicodramma si strutturò come metodo terapeutico-curativo. Inizialmente le sessioni si realizzavano con uno o pochi pazienti ed uno staff di IO ausiliari professionisti che avevano la funzione di esternare il mondo reale e fantasmatico dei pazienti.

Successivamente lo psicodramma si strutturò sempre più (fino ad assumere le caratteristiche attuali) come terapia di gruppo, ove la funzione di IO ausiliario viene assunta dai pazienti stessi, rendendo non più necessaria la presenza di IO ausiliari professionisti.

Lo psicodramma manteneva tuttavia collegamenti con ambiti extra-terapeutici, sia nelle sessioni aperte (incontri di psicodramma aperti al pubblico, ove era il pubblico stesso ad entrare in azione) sia nello psicodramma addestrativo (rivolto ad allievi e professionisti), che possedeva somiglianze con le metodologie attuali di supervisione con modalità psicodrammatiche.

Il sociodramma

Il sociodramma nasce dall’esigenza di confrontarsi con quelle contraddizioni sociali e culturali che rimandano contemporaneamente sia alla dimensione psicologica intrapsichica che a quella social-culturale.

Negli Stati Uniti, in particolare, era cruciale la problematica razziale, con le sue implicazioni di pregiudizio, paura, difesa e discriminazione sociale. Il sociodramma, come strumento di intervento sui grandi gruppi, si prestava ad elaborare costruttivamente le problematiche cruciali di una comunità (sesso, conflitto generazionale o razziale, pregiudizio verso determinate categorie quali carcerati, malati di mente, ecc.). A differenza dello psicodramma, il sociodramma non si interessa tanto al mondo interno del singolo, quanto a quelle dimensioni che appartengono e trapassano trasversalmente gli individui di una determinata categoria o realtà sociale. Detto in altre parole, il sociodramma si occupa di ruoli sociali e delle loro rappresentazioni interne e culturalizzate.

L’addestramento al ruolo

L’interesse per l’addestramento e la formazione è dato in Moreno dalla prima esperienza del Teatro della spontaneità. Si trattava in questo contesto di addestrare l’attore alla spontaneità e alla creatività, alla capacità di inventare il ruolo e di sapere fronteggiare e concretizzare in modo spontaneo le imprevedibili situazioni proposte dal pubblico.

La preoccupazione principale era il superamento delle “CRISTALLIZZAZIONI CULTURALI” (stereotipi e rigidità di ruolo) per giungere alla condizione di spontaneità, premessa alla possibilità di creatività nella realizzazione del ruolo. Questo lavoro di preparazione dell’attore richiama alcune delle tecniche tuttora utilizzate nell’addestramento e nella formazione (le simulazioni e le attività di warming-up, o riscaldamento).

Fu però soprattutto nel lavoro con la comunità femminile di Hudson che Moreno utilizzò le tecniche di azione con finalità di addestramento professionale e di elaborazione delle dinamiche di gruppo delle ragazze ospiti. Queste ragazze adolescenti provenivano da esperienze di criminalità e prostituzione e si poneva alla struttura che le ospitava il compito di reinserirle nella società, fornendo loro competenze sociali e professionali, oltre che una possibilità di riequilibrio psico-affettivo. Moreno lavorò con loro con i metodi del Role-playing, dell’anticipazione delle situazioni future e anche con interventi di psico-terapia di gruppo.

L’accento era posto sull’intreccio di acquisizione di specifiche competenze di ruolo lavorativo e di formazione di una personalità capace di interazione positiva e di spontaneità.

“Un adattamento ottimale a più ambienti richiede una personalità adattabile e spontanea. […] Il nostro metodo ha parecchi vantaggi su quello consistente nel formare gli individui ad un buon adattamento sociale mediante la diretta esperienza di situazioni di vita reale. […] Prima di tutto, la serietà delle situazioni reali impedisce all’individuo di prendere coscienza dei suoi errori : la sua ansia gli farà ripetere gli stessi errori quando si ritroverà di fronte a situazioni analoghe. […] In secondo luogo le situazioni reali creano in numerosi individui una specie di inerzia affettiva dovuta al fatto che, essendo riusciti positivamente in un certo ruolo, si comportano come se non venisse loro richiesto qualcosa di più . […] Inoltre, se le situazioni reali formano un individuo in modo che possa adattarsi perfettamente ad un certo ruolo, […] tendono ad escludere dal suo orizzonte altri orizzonti. […] Per tutto ciò l’apprendimento della spontaneità, in quanto METODO DI SVILUPPO, è superiore all’apprendimento che può venire offerto dalla vita. […] Il problema dell’apprendimento non sta più nel suscitare o nel mantenere delle abitudini, bensì nel formare la spontaneità, nello sviluppare negli uomini l’abitudine a tale spontaneità ” (Moreno, 1980: 165)

La sociometria

L’interesse per la misurazione e la rilevazione qualitativa e quantitativa delle relazioni nei piccoli e nei grandi gruppi ha sempre contraddistinto il lavoro di Moreno. Tuttavia è solo nel 1934, con la pubblicazione di “Who Shall Survive?”, che Moreno sistematizza quella che lui definisce sociometria.

La sociometria moreniana (o misurazione dei rapporti sociali) ha avuto un’ampia diffusione in ambito educativo e nella ricerca sociale. Anche in questo caso, come per numerose tecniche dello psicodramma, e avvenuto una specie di “saccheggio” di fertili intuizioni operative, riutilizzate in campo sociale, educativo e terapeutico da operatori che facevano riferimento a modelli teorici anche lontani dallo psicodramma.

La sociometria, intesa come mera tecnica di rilevazione o “diagnosi statica” (che produce grafici, sociogrammi e dati numerici), è molto distante dal significato operativo e trasformativo che Moreno aveva inteso dare. Per Moreno, infatti, la sociometria è uno strumento volto alla comprensione degli spostamenti relazionali all’interno di un gruppo, in funzione di una trasformazione evolutiva delle possibilità del gruppo stesso e delle persone. La vera sociometria moreniana è la “sociometria d’azione”, fotografia immediata e mutevole delle relazioni gruppali, con l’intento di agire subito in modo spontaneo e creativo sui nodi critici di tali relazioni.

E’ tale l’uso che Moreno fece della sociometria nella comunità di Hudson sopracitata. In questa realtà Moreno utilizzò il sociogramma come strumento per modificare e migliorare le relazioni fra le giovani ospiti di Hudson: le ragazze grazie all’indagine sociometrica avevano la possibilità di strutturare la vita quotidiana in funzione combinata dei loro bisogni affettivi e degli obiettivi futuri di reinserimento sociale.

ELEMENTI CARDINE DELLA TEORIA MORENIANA

Teoria del ruolo

Per capire a fondo il significato di “RUOLO” nella teoria moreniana occorre subito differenziare tale concetto dalle due accezioni di ruolo più diffuse:

? Ruolo in senso sociologico;

? Ruolo in senso teatrale.

Il ruolo sociologico fa riferimento soprattutto alle concrete realizzazioni sociali dei ruoli, rimandando a categorie culturali e sociali di rappresentazione della vita sociale. Un ruolo sociale (es.: vigile, medico) ha determinati confini prestabiliti, compiti, sanzioni e gerarchie di status ecc., che prescindono dall’individuo e dalla persona che deve assumere questo ruolo.

Il ruolo in senso teatrale si riferisce immediatamente al concetto di “MASCHERA”, finzione ed illusione. In questo caso si parla di recitare un ruolo o una parte, non di essere quella parte.

In entrambi i casi, sia che si parli di ruolo sociale “appiccicato” ad un individuo, sia che si parli di recitare un ruolo, vi è una separazione tra la soggettività e l’apparenza .

La specificità dell’apporto moreniano alla teoria del ruolo riguarda da un lato l’estensione del concetto di ruolo a tutti gli ambiti del comportamento umano, dall’altro il collegamento ad aspetti corporei, soggettivo-intrapsichici e sociali.

Moreno definisce il ruolo come:

“ La forma operativa che l’individuo assume nel momento specifico in cui reagisce ad una situazione specifica nella quale sono coinvolte altre persone od oggetti ” (Moreno, op. cit., pag. 158) .

Per capire come i ruoli siano interconnessi con l’individuo e non siano soltanto una sovrapposizione esterna, bisogna pensare alla funzione strutturante del ruolo per la personalità. E’ l’IO che emerge dai ruoli e non viceversa. L’esperienza diretta di molteplici ruoli da parte del bambino appena nato struttura una percezione corporea, emotiva e successivamente rappresentativa del suo sé e della sua collocazione nel mondo. Il lattante sperimenta gradualmente vari ruoli, di succhiatore, di dormitore, di cucciolo coccolato, accettato o rifiutato, ecc. e sarà la confluenza e l’unificazione corporeo-emotiva e rappresentativa di tali esperienze a fare emergere l’IO.

In tal senso è evidente come l’IO si sviluppa mediante e grazie ad una notevole penetrazione del sociale nell’individuale. Moreno individua quattro categorie di ruoli che si sovrappongono successivamente nello sviluppo dell’essere umano:

  • ruoli psicosomatici (corporei), sono i primi ad emergere nello sviluppo del bambino. Sono tutti quei ruoli che riguardano le funzioni corporee (mangiare, dormire, sensazioni propriocettive, ecc.);
  • ruoli fantasmatici o psicodrammatici. Iniziano a comparire prestissimo quando si abbozza la vita rappresentativa nel bambino. Sono quei ruoli che riguardano il mondo interno della persona e racchiudono la peculiarità fantastica ed emotiva di ogni essere umano (il ruolo di “bambino ubbidiente” o cattivo, di sognatore, magico, ruoli fantastici di fate e di streghe, fantasmi divoratori e immagini oniriche…);
  • ruoli sociali . Esperienzialmente compaiono alla nascita (infatti un lattante vive già il ruolo sociale di figlio anche se non ne è cosciente), però la loro strutturazione interna rappresentativa (intesa come capacità di percepire gli individui come appartenenti a categorie sociali) data all’inizio della scuola elementare. Sono quei ruoli che appartengono alla società nella quale l’individuo vive e si sviluppa. Essi vengono codificati culturalmente e socialmente (ruoli di figlio, genitore, maschio o femmina, lavorativo ecc…).

N.B.: Per chiarire ulteriormente: se parliamo DEL genitore (il suo ruolo, i suoi compiti) ci riferiamo ad un ruolo sociale; se parliamo di UN genitore specifico, per come è vissuto, concettualizzato ed interpretato da un singolo individuo, ci riferiamo ad un ruolo psicodrammatico.

  • ruoli valoriali (o trascendentali). Hanno la loro comparsa ed esplosione “emotiva” nell’adolescenza (tempo elettivo di sogni, illusioni, progetti e “filosofia di vita”). I ruoli valoriali concernano il senso e la finalità dell’operato dell’uomo: sono il contenitore che orienta la vita attraverso gerarchie di valori, utopie e progettualità esistenziali.

N.B.: I ruoli valoriali sono connessi fortemente sia ai ruoli psicodrammatici che ai ruoli sociali: infatti da un lato rappresentano la specificità esistenziale dell’individuo (i suoi valori), dall’altro sono anche il prodotto di rappresentazioni sociali (ad esempio il ruolo di educatore porta con sé una serie di valenze valoriali quali: l’aiutare gli altri e riparare ciò che non è giusto, ecc…).

I l fattore S-C (spontaneità-creatività)

I riferimenti filosofici dello psicodramma rimandano ad una concezione dell’uomo come essere capace di liberarsi dai limiti impostigli dalla sua condizione, e capace di liberare spontaneità e creatività.

Da questo punto di vista l’orientamento psicodrammatico può essere inquadrato come finalistico, espansivo, volto alla valorizzazione delle risorse dell’essere umano; l’orientamento psicoanalitico, al contrario, può essere visto come deterministico e centrato maggiormente sui limiti ed i segni lasciati nella persona dalla sua storia.

L’ipotesi teorica ed immediatamente operativa dello psicodramma postula la compresenza nell’esperienza in ogni individuo (e nei gruppi) di due dimensioni intimamente collegate: la spontaneità e la creatività. Ogni essere è dotato della possibilità di essere spontaneo e di un certo grado di creatività.

Per evitare fraintendimenti è necessario chiarire che cosa intende Moreno per spontaneità. Essa non è ciò che il linguaggio comune definisce: un comportamento privo di regole che fa uscire in modo incontrollato emozioni, pensieri o azioni indipendentemente dalle esigenze della. La spontaneità è piuttosto una condizione che può essere creata in ogni individuo, uno stato interno che può essere prodotto e che costituisce la base per l’espletarsi della creatività.

La spontaneità è pertanto un catalizzatore per la creatività e l’una senza l’altra portano conseguenze negative e non produttive. Moreno definisce due estremi a tal riguardo:

? il deficiente spontaneo , colui che in uno stato perenne di “spontaneità”, ma privo di risorse creative, fornisce in continuazione risposte inadeguate all’ambiente e dettate solo da bisogni e stati interni;

? il creatore disarmato , colui che, ricco di potenzialità creative, non riuscendo a creare in sé uno stato di spontaneità, resta paralizzato e non riesce ad esternare le potenzialità creative (al pari della parabola evangelica dei talenti, nella quale il servitore con tanti talenti non necessariamente li mette a frutto).

E’ importante sottolineare che la spontaneità può essere educata, sviluppata e ricreata mediante un processo di riscaldamento.

La metodologia psicodrammatica parte dal presupposto che la spontaneità può manifestarsi in determinate situazioni (esempio uso del corpo, umorismo, situazioni di intimità e di contatto con l’altro, ecc.) e in tutte le persone, anche quelle più limitate o malate. E’ per questo che metodologicamente la fase di riscaldamento (o warming-up) è particolarmente curata nei gruppi di psicodramma.

Da questo punto di vista quello che il formatore è chiamato a fare, in psicoterapia, in formazione e nelle situazioni di apprendimento, non è altro che una risposta creativa scaturita dopo una fase di incubazione, in un momento di adeguata spontaneità.

Un buon equilibrio del fattore S-C porta da un lato alla capacità di dare risposte adeguate ad una situazione nuova e imprevista, e dall’altro di saper dare una risposta nuova e creativa ad una situazione vecchia e cristallizzata.

Tele e incontro

Sviluppando operativamente gli apporti filosofici di MAX BUBER, Moreno individua nella possibilità di INCONTRO (inteso come capacità dell’essere umano di entrare in relazione emotiva con i suoi simili, in modo autentico e non distorto) la chiave di lettura della salute mentale e dell’equilibrio della personalità. La capacità d’incontro presuppone che siano attivi i processi di tele .

TELE significa “a distanza”, ed indica la capacità presente in ogni individuo fin dalla nascita di entrare in relazione emotiva con gli altri esseri umani. Il tele si differenzia dall’empatia, la quale e un processo ad una via (una persona è empatica verso un’altra, ma non necessariamente tale atteggiamento viene corrisposto). Potremmo definire il tele come un’empatia a doppia via, ove centrale diventa le reciprocità. A tale riguardo la poesia di Moreno INCONTRO pubblicata in apertura dell’articolo esprime in modo figurato il processo attivato dal tele.

Il tele si differenzia notevolmente dal transfert, processo chiave del trattamento psicoanalitico. Il tele precede storicamente il transfert che del tele è la manifestazione patologica. Potremmo dire che man mano che crescono le relazioni teliche diminuiscono le relazioni transferali, e viceversa un ampio spazio alle relazioni transferali riduce la possibilità di incontro autentico e profondo.

Ancora una volta notiamo come operativamente lo psicodramma punti maggiormente allo sviluppo della capacità telica, rispetto alla elaborazione delle distorsioni transferali.

II.2.4. Teatro terapeutico e catarsi

Fin dai tempi antichi il teatro ha avuto funzioni educative, sociali e terapeutiche per la comunità.

Aristotele nelle sue riflessioni sulla funzione della tragedia sostiene che la stessa “purifica” lo spettatore poiché mobilita la compassione ed il terrore. Il pubblico, partecipando alle vicende dei personaggi del dramma, identificandosi nelle loro valenze paradigmatiche e simboliche (vedi la tragedia di Edipo), ricostruisce la sua identità personale e sviluppa la sua appartenenza alla comunità.

La grande innovazione di Moreno è stata lo spostamento del focus dal pubblico all’attore. Non è più solo lo spettatore che trae beneficiò dalla partecipazione emotiva alle vicende delle DRAMATIS PERSONAE, (catarsi indiretta), ma è soprattutto l’attore in quanto protagonista che, grazie all’azione scenica, può rivivere e ricreare il suo dramma esistenziale, cercando creativamente le soluzioni e gli sviluppi più consoni ai suoi bisogni e desideri (catarsi del protagonista). A tal riguardo è utile richiamare l’aneddoto del giovane Moreno che alla domanda di Freud che gli chiedeva che cosa facesse, rispose: ” cominciò da dove lei finisce Professore. Lei insegna alla gente a capire i suoi sogni, io cerco di dare alle persone il coraggio di sognare ancora ” (Moreno, 1987: 26).

Un’ultima cosa è necessario dire sul concetto di catarsi, per i frequenti fraintendimenti che questo termine produce. Lo psicodramma non è tout-court un “Teatro della catarsi”, anche se il processo di catarsi ha un suo ruolo specifico ed una sua funzione sia in terapia che in formazione.

La catarsi non è la semplice liberazione emotiva di sentimenti né lo scaricamento compensatorio di frustrazioni accumulate nell’ambiente di vita o lavorativo. Per Moreno la catarsi e un processo in due fasi strettamente connesse fra di loro:

? una fase di abreazione emotiva di un affetto o di un contenuto interno rimasto imbavagliato nella vita quotidiana;

? una fase di integrazione di questo nuovo contenuto nel sistema di riferimenti relazionali ed oggettuali della persona.

Da questo punto di vista la catarsi non coincide con l’abreazione, ma diventa un processo integrativo e ristrutturante. E’ più corretto allora parlare di integrazione catartica nello psicodramma più che di catarsi in senso stretto.

PSICODRAMMA E SOCIODRAMMA IN AZIONE

Le considerazioni fatte nei punti precedenti rendono evidente che, per la base filosofica e per il tipo di visione dell’uomo da parte della teoria moreniana, non è corretto parlare di tecniche psicodrammatiche avulse dal loro contesto, ma e più opportuno parlare di modalità psicodrammatiche . Questo non significa che le tecniche psicodrammatiche non possano essere usate al di fuori del loro contesto teorico; significa solo che le potenzialità di queste tecniche si esaltano se il contesto formativo o terapeutico fa riferimento anche ad alcuni aspetti della “filosofia” psicodrammatica.

Cercherò ora brevemente di illustrare alcuni aspetti operativi e tecnici dello psicodramma per rendere più esplicito il particolare setting formativo di cui stiamo parlando.

Azione e riscaldamento

La caratteristica centrale delle modalità psicodrammatiche è sicuramente l’attenzione a tradurre in “AZIONE” quanto rischierebbe di rimanere su un piano di “RACCONTO”, razionalizzazione o intellettualismo.

Azione nello psicodramma non significa però né agire incontrollato né fare senza pensare. Si parla piuttosto di “contesto di azione”, che significa inserire i contenuti emotivi e razionali in un contesto situazionale che renda percepibile plasticamente e comunicabile, mediante un linguaggio diretto, tali contenuti.

Per fare un esempio: è sostanzialmente diverso che un operatore “racconti” il suo rapporto professionale con un utente, oppure che in un contesto psicodrammatico entri nei panni dell’utente, e da quel punto di vista descriva come sente e valuta quell’operatore…

Nel primo caso prevale il racconto e il filtro razionale, nel secondo caso prevale l’azione intesa come confluenza di dati spaziali, situazionali, corporei, razionali ed emotivi.

Il contesto di azione è sempre attivo e solitamente precede il contesto di verbalizzazione, intellettualizzazione e sistematizzazione teorica che viene comunque tenuto presente.

Vi è quindi una spirale continua che parte dal racconto all’azione e dall’azione all’intellettualizzazione per ritornare all’azione, se si rende ancora necessaria…

Direttamente collegato al concetto di azione vi è quello di “ riscaldamento ” (o warming-up). L’azione da un lato è “riscaldamento” o preparazione all’emergenza della spontaneità e della creatività; d’altra parte è necessario in un gruppo creare gradualmente le condizioni (relazionali ed emotive) affinché l’azione possa espletarsi in tutte le sue potenzialità formative e terapeutiche.

E’ per questo che un’attività di riscaldamento precede e crea le condizioni per l’espletarsi dell’attività formativa: infatti vi è un’equazione che vede da un lato spontaneità e riscaldamento e dall’altro ansia e assenza di riscaldamento. Citando Moreno possiamo dire che:

“L’ansia è in funzione della spontaneità.

La spontaneità, secondo la nostra definizione, è la risposta adeguata alla presente situazione. Se la risposta alle circostanze è adeguata, se c’è “pienezza” di spontaneità, l’ansia decresce e scompare.

[…] Partire dall’aspetto negativo, dall’ansia sarebbe un errore dialettico .

Il problema vero sta nell’individuare il fattore dinamico che fa insorgere l’ansia.

L’ansia si manifesta quando fa difetto la spontaneità: non è l’ansia che compare per prima e che comporta a causa della propria comparsa l’attenuazione della spontaneità ”.

(J.L. Moreno, 1980: 185-186).

Direttore

La definizione più corretta del ruolo di conduttore di gruppi terapeutici o formativi con modalità psicodrammatiche è quella di “DIRETTORE”. Contrariamente a quanto potrebbe sembrare a prima vista, è proprio la valorizzazione delle dimensioni di “spontaneità” e “creatività” che richiede un atteggiamento direttivo da parte del conduttore.

Preoccupazione principale del direttore di psicodramma è quella di creare un contesto con alcune regole certe ed alcuni riferimenti spazio-temporali che fungano da contenitore per l’ansia che le situazioni di gruppo o non strutturate potrebbero potenzialmente indurre. Solo se l’ansia viene attenuata, in un contesto di gruppo caldo e contenitivo, è possibile portare a buon fine le potenzialità dei partecipanti e la realizzazione degli obiettivi formativi.

Questo non è un processo magico o mistificante: semplicemente il direttore deve evitare di indurre ansie aggiuntive o situazionali quando esse non sono necessarie. L’atteggiamento di fondo del direttore di psicodramma rimanda al parametro paterno, unendo in sé direttività, empatia, genuino calore umano, unito a capacità d’individuazione.

Se vogliamo usare ancora parametri di tipo familiare, potremmo dire che alle caratteristiche paterne del direttore, nello psicodramma si devono affiancare le caratteristiche “materne” e contenitive del gruppo.

Gruppo

Il gruppo nello psicodramma è concepito in due prospettive:

  • la prima come contenitore positivo dei bisogni, desideri ed ansie dei suoi membri;
  • la seconda come terreno composito di relazioni teliche (o non teliche) perennemente in movimento ed in evoluzione.

Pertanto si rende continuamente necessario operare a due livelli:

à da un lato costruire un gruppo che nell’insieme “contenga” i suoi membri;

à dall’altro operare, soprattutto con l’ausilio delle tecniche sociometriche, per rendere trasparenti e passibili di modificazione ed evoluzione positiva le relazioni fra i singoli membri del gruppo.

IO ausiliario

L’io ausiliario è una persona del gruppo che riveste in un determinato momento dell’azione psicodrammatica il ruolo di un altro significativo del mondo relazionale (e/o professionale) o del mondo interno del protagonista (= la persona che è in quel momento al centro dell’azione).

Forse un esempio può far capire che cosa è concretamente l’IO ausiliario nello psicodramma. In una situazione di supervisione, un educatore (il protagonista) rappresenta le difficoltà di rapporto con un ragazzo disabile. In questa situazione altri membri del gruppo possono diventare IO ausiliari, entrando nei panni degli altri “significativi”: il ragazzo disabile la madre, il collega, il responsabile della struttura, ma anche personaggi interni quali il padre dell’educatore stesso, la cui presenza interna determina i vissuti e i comportamenti dell’educatore nei confronti del disabile .

L’IO ausiliario può anche rappresentare parti simboliche o fantastiche: ad esempio nel caso di prima può diventare il “senso del dovere dell’educatore”, oppure il senso di “peso sulle spalle” che fisicamente la relazione con il disabile dà all’educatore. L’IO ausiliario ha pertanto la funzione di rendere percepibili e visibili (e pertanto passibili di interazione e di confronto) gli altri reali e fantasmatici che popolano l’esperienza del protagonista.

L’IO ausiliario dal punto di vista del direttore ha la funzione di prolungamento dell’intenzionalità terapeutica o formativa; d’altro canto l’IO ausiliario fa’ da protezione alla trasposizione di attributi transferali sul conduttore. Nello psicodramma infatti il transfert viene agito sugli IO ausiliari e non sul terapeuta o formatore.

II.3.5. Le tre tecniche-chiave dello psicodramma: Doppio, Specchio, Inversione di ruolo

Doppio . Per capire che cosa si intende per doppio nello psicodramma basta pensare a ciò che la madre fa con il neonato quando tenta di intuire e rispondere ai suoi bisogni. La madre è il primo IO ausiliario della storia personale e sociale del bambino: una madre riesce a rispondere ai bisogni del suo bambino se riesce a “doppiarlo”, cioè a dare voce a quanto il bambino sente, desidera, teme ecc…

Il termine doppio rimanda al duplice significato di “doppiaggio cinematografico” (= dare voce a…) e di doppio nel senso di “altro uguale a me che vive accanto a me le stesse mie esperienze” (è frequente nei bambini la creazione del doppio immaginario fantastizzato, che li affianca nelle esperienze di vita). La tecnica del doppio consente in un gruppo di far percepire la universalità del percepire e far esaltare contenuti interni inespressi.

Specchio . Anche in questo caso è utile ricorrere all’immagine della figura materna che, dopo una prima fase nella quale deve soprattutto “doppiare” il bambino, inizia a fargli da specchio, rimandandogli la sua immagine e ristrutturando con dati di realtà la percezione egocentrica del bambino.

La tecnica dello specchio consiste nel riprodurre una scena o una postura del protagonista (ad esempio un atteggiamento perplesso di un educatore di fronte ad un collega) da parte degli Io ausiliari in modo che il protagonista stesso possa vedersi dall’esterno.

Si ha una situazione di specchio e di rispecchiamento nello psicodramma sia quando un membro del gruppo ha la possibilità di vedersi dall’esterno (percependo talvolta aspetti inediti o sconosciuti di sé), sia quando il rimando di realtà degli altri membri del gruppo (“Io ti vedo così…”) favorisce un insight di realtà e di maggiore consapevolezza dell’etero-percezione.

Inversione di ruolo : è la tecnica chiave dello psicodramma. Nello sviluppo psico-affettivo del bambino la capacità di inversione di ruolo (mettersi nei panni degli altri, vedere le cose dal loro punto di vista) segna il passaggio dall’egocentrismo alla capacità di relazione sociale e d’intimità. La tecnica dell’inversione di ruolo consente di allargare la consapevolezza delle proprie relazioni psicosociali ed al tempo stesso favorisce la capacità di individuazione dell’altro: non vi è infatti completa conoscenza di sé senza una almeno parziale uscita da sé, che consente un decentramento percettivo. L’inversione di ruolo è uno strumento potentissimo di ristrutturazione delle relazioni fortemente condizionate da elementi transferali, poiché avvicina alla vera umanità dell’altro, al suo peculiare modo di vedere la vita. Parafrasando il Vangelo Moreno dice: ” Ama il prossimo tuo attraverso l’inversione di ruolo ”

( Moreno, 1984: 158)

Realtà, semi-realtà e plus-realtà

E’ necessario definire questi tre termini poiché nel contesto psicodrammatico essi si alternano e si integrano in fasi successive. Gli spazi di realtà sono quelli nei quali il gruppo e il singolo si confrontano con problemi di realtà, con contenuti intellettuali o con piani di relazione reale (IO operatore X di fronte a te operatore Y). Solitamente si parte in un gruppo di formazione da un piano di realtà, che ricompare altre volte nel corso del lavoro e diventa centrale nella fase conclusiva.

La semi-realtà : è la condizione nella quale il gruppo o l’individuo si trova quando ci si sposta in un piano di gioco “come se”. In questo caso si parla di semi-realtà poiché le situazioni sono fittizie (l’IO ausiliario fa la parte del bambino disabile ma non è il bambino disabile ) ma le emozioni e i vissuti sono veri ed autentici. Quando vengono introdotte le tecniche psico- drammatiche si passa automaticamente ad un piano di semi-realtà.

Plus-realtà : è una “realtà arricchita” dal desiderio o da risorse aggiuntive (Moreno deriva questo concetto da un parallelo col plus-valore di marxiana memoria). E’ utile sia in formazione che in terapia provare a sperimentare come sarebbe o potrebbe essere la realtà se si modificassero alcune condizioni. In tal senso entrare in un piano di plus-realtà significa esplorare il mondo del possibile, del desiderato, del realistico e dell’irrealistico.

Da “Tele. Manuale di psicodramma classico”, Giovanni Boria, Franco Angeli/psicosociologia, 1988

Dott.ssa Flavia Accini

Formatrice, Psicodrammatista, esperta in tecniche di conduzione di gruppo.

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

SEPARARSI

IL DISTACCO COME OCCASIONE DI CRESCITA E DI TRASFORMAZIONE

 

Lo scorrere della vita ci espone alla separazione. La stabilità non esiste, l’illusione della sicurezza ci ingessa in un involucro che spesso non ci appartiene più. Lasciare un lavoro, una persona, una casa, o parti noi, ci pone al cospetto del sentimento della mancanza e del vuoto, un vuoto che ci consente l’atto creativo, un vuoto che è la molla propulsiva e generativa della costruzione di una nuova visione del futuro. Se non c’è la consapevolezza della nostra paura del cambiamento neghiamo bisogni ed emozioni come anestesia che ci preserva dal distacco da persone, cose, parti noi che non ci appartengono più.

E’ possibile affrontare la tristezza come risorsa positiva che ci permette di porre il confine tra il sé e l’altro. La tristezza è spazio introspettivo che introduce alla creatività, che da forma al nostro essere al mondo e ci permette di squarciare i veli dell’indistinto. Tristezza e dolore ci rendono sensibili e ci permettono di guardare la nostra “ferita” amandola; un processo che ci porta ad assumere il carico della nostra sofferenza per scoprire le strade che si diramano verso nuove possibilità.

La separazione, e la tristezza che la accompagna, ci pone dunque al cospetto della affermazione del nostro “essere al mondo” e del diritto di esistere, con i propri tempi, bisogni e confini e distanze: è il processo di affermazione della responsabilità e della possibilità di scegliere. Valorizzare le risorse interne significa ascoltare, accudire e soddisfare i nostri bisogni.

Spesso separarsi viene percepito come un “atto sanguinoso” portatore di una colpa che chiede una riparazione. La riappropriazione del senso di colpa ci preserva dall’essere vittime e carnefici di noi stessi. Sotto la colpa cova la rabbia dei nostri bisogni insoddisfatti; valorizzare il significato della colpa come uno degli elementi fondanti l’esperienza della separazione ci pone al cospetto del perdono che possiamo concederci e concedere.

Questo lavoro ci aiuta ad affrontare il guado di un distacco che non è distruzione della relazione ma cambiamento della relazione. Per separarsi bisogna incontrarsi, per incontrarsi bisogna separarsi.

OBIETTIVI

  • Esplorare i sentieri del cambiamento come avventura in cui potere immergersi accettandone la sfida e il rischio del nuovo.
  • Riconoscere la separazione come momento per fare emergere tutte le emozioni collegate al nostro sentimento del vuoto e individuare i bisogni che tali emozioni sottendono.
  • Riconoscere l’altro come distinto e non come prolungamento del sé e sperimentare la dimensione dell’incontro.
  • Scoprire, riconoscere, individuare il proprio diritto ad esistere con i propri tempi e i propri spazi.

Dott.ssa Flavia Accini

Formatrice, Psicodrammatista, esperta in tecniche di conduzione di gruppo.

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

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UN VIAGGIO RIGENERANTE

Viaggiare. Andare via, lontano. Da tutto e tutti.
Quanto spesso abbiamo desiderato allontanarci dalla nostra vita quotidiana, dalle preoccupazioni, dallo stress o da determinate situazioni ?
Tutti, prima o poi, nella nostra vita, abbiamo pensato di “scappare” da quella che è la nostra situazione di tutti i giorni per recarci in “nuovi luoghi”, preferibilmente mai visti e mai conosciuti, alla ricerca di novità, o solo di riposo (fisico e mentale), ma spesso alla ricerca di una nuova consapevolezza di noi stessi, di quel che siamo o vorremmo essere.
Spesso si decide di andare via, lontano, a seguito di problematiche sentimentali: una storia finita, un periodo di riflessione, ma anche la consapevolezza di un amore impossibile.
Il viaggio diventa così “strumento di cura”. Cura soprattutto per la mente. Sovente il viaggio è necessario per il superamento di una dipendenza affettiva che è diventata troppo forte, persino patologica. O per affrontare la fine di un amore.
Quando una storia d’amore finisce, soprattutto se è stata lunga, può portare con sé tutta una serie di dinamiche psico-emotive, a volte persino a livello inconscio, che possono costituire un pesante fardello per andare avanti nella propria vita quotidiana.
Si può andare da una inquietudine leggera ma generale fino a livelli che possono divenire patologici. A mettere in guardia dalle conseguenze, spesso tragiche, dell’amore non corrisposto è uno psicologo londinese, Frank Tallis, sulle pagine della rivista “The Psycologist”. Soffrire per passione, sostiene Tallis, può diventare una vera e propria malattia. L’innamoramento, in molto casi, può essere un’esperienza “destabilizzante’” per l’individuo. Soprattutto se non si è corrisposti dall’oggetto del desiderio o quando un Amore finisce.
Ecco che il superamento di un’importante storia d’amore può, in tal modo, diventare il fulcro centrale e necessario per il proseguimento di una vita “normale”, per poter andare avanti con la propria vita quotidiana, per poter affrontare “quel che verrà dopo”.
Liberare il cuore dai residui di una storia d’amore non è una cosa facile, non per tutti almeno.
Il viaggio può essere d’aiuto in queste situazioni.
Come detto, l’allontanamento da particolari situazioni e contesti può essere fondamentale nel coadiuvare l’individuo in questo difficile processo di abbandono. Un processo spesso lento e graduale, che il viaggio contribuisce a rendere più agevole e meno traumatico.
Il fulcro del discorso va ricercato innanzitutto nelle motivazioni che spingono un soggetto al viaggio come “allontamento da situazioni cariche di valenza emotiva”.
Già diversi studiosi (Meyer 1977, Gulotta 1986, Przeclawki) hanno identificato diverse motivazioni alla base del viaggio: particolarmente importanti per il nostro discorso sono le motivazioni fisiologiche (turismo di salute, turismo ricreativo), le motivazioni interpersonali (desiderio di intraprendere nuove attività e di nuovi contatti con pesone diverse) e le motivazioni psicologiche (bisogni di tranquillità, relax, serenità, svago).
L’allontanarsi dal proprio contesto quotidiano, dove tutto ricorda la persona amata e la delusione d’amore, può già essere una forte motivazione a priori per decidere di viaggiare e andare lontano dalla propria routine quotidiana. Le motivazioni descritte costituiscono quindi un rafforzamento di una motivazione già presente nell’individuo.
In riferimento a queste motivazioni possiamo senz’altro richiamare la teoria bi-dimensionale di Iso Ahola (1987) secondo cui il comportamento turistico, quindi anche il viaggiare in seguito a una “delusione d’amore”, è condizionato da due forze che agiscono simultaneamente:
– la fuga dall’ambiente e dalla routine quotidiana
– la ricerca di ricompense psicologiche

In particolare, quello che ci interessa per il nostro discorso, è il primo punto della teoria, cioè la fuga dall’ambiente e dalla routine quotidiana. Secondo Iso Ahola per quel che riguarda il “mondo personale” del soggetto questa fuga dal quotidiano è motivata dall’evitamento di problemi personali, dubbi, difficoltà, fallimenti. Per quel che concerne il “mondo interpersonale” vi è invece l’evitamento di compagnia, amici, membri della famiglia.
Allontanarsi da una situazione quotidiana che richiama alla fine della “propria storia” (propria e di nessun altro), è un comportamento che può senza dubbio rientrare nella prima dimensione di questa teoria, quella della fuga dall’ambiente e dalla routine quotidiana appunto. Vi è infatti, dal punto di vista personale, il cercare di evitare tramite il viaggio i pensieri, i problemi e le situazioni che richiamano alla propria situazione particolare; dal punto di vista interpersonale vi può essere la propensione ad evitare ogni tipo di compagnia conosciuta per cercare nuove interazioni sociali con persone nuove.
Bisogna però ricordare che il legame fra motivazioni e comportamento non è così automatico: spesso la vacanza può essere abbastanza lunga da permettere una vasta e differente gamma di attività, ognuna delle quali è svolta per rispondere a esigenze e motivazioni particolari che possono essere del tutto nuovo e non essere state considerate nel momento in cui la vacanza era stata progettata. Inoltre, in particolari situazioni, come può essere quella del cercare di affrontare una delusione d’amore, il soggetto-turista non è neppure cosciente di tutte le ragioni delle sue scelte.
Oltre a tutto quello fin qui considerato c’è un altro aspetto fondamentale da prendere in considerazione: la soddisfazione.
Quando termina un amore, o meglio, una storia d’amore particolarmente importante, nell’allontanarsi dal proprio contesto di vita quotidiana vi può essere la voglia di una ricerca di soddisfazione, di nuove gratificazioni, spesso di una soddisfazione interiore, una ricerca “dentro sé stessi” per realizzare una nuova coscienza del proprio io interiore. È un modo per andare oltre, per superare il momento particolare che l’individuo (ed il suo io personale) sta vivendo.
Secondo l’approccio della motivazione post-hoc, definito da Mannell e Iso-Ahola (1987), le differenze verso certe attività e le soddisfazioni che ne deriverebbero sono basate su una varietà di bisogni determinati biologicamente e appresi socialmente. Gli individui, dunque, sarebbero coscienti dei propri bisogni e delle proprie motivazioni di tempo libero, sarebbero di conseguenza capaci di elaborare giudizi molto accurati sul proprio grado di soddisfazione. Eventi che hanno un grosso impatto sulla sfera emotiva individuale e che (spesso) si è incapaci di affrontare, come appunto la Fine di un Amore, porterebbero dunque alla ricerca di determinate attività e soddisfazioni piuttosto che altre. Gli individui, come detto “coscienti dei propri bisogni e delle proprie motivazioni di tempo libero”, in questi casi potrebbero propendere per un allontanamento totale dal contesto di vita quotidiana, alla ricerca di attività e soddisfazioni del tutto nuove.
In definitiva, il viaggio come superamento della fine di un amore o di una dipendenza affettiva può essere una terapia molto efficace. L’allontanarsi, anche fisicamente, dalla “propria storia d’amore” porta ad una riflessione più accurata e critica del proprio vissuto, di quello che è stato, di quello che è e persino di quello che potrà essere. Ecco che nel viaggio può subentrare un “accettarsi diversamente”, come conseguenza della scoperta di un diverso sé, del tutto nuovo, che può fare da base di partenza verso “il resto della propria vita”. Il viaggio, infatti, può aiutare a riflettere più efficacemente, senza distrazioni, può aiutare a guardare in faccia la realtà, può riuscire a mettere l’individuo davanti all’evidenza delle cose e a chiamarle col proprio nome (tradimento, perdita, separazione, distacco, cambiamento).
Naturalmente non c’è una ricetta assoluta, una panacea per risolvere il mal d’amore attraverso il viaggio.
Anche dell’allontanamento, del viaggio, se ne può fare uso differente. Può essere un tempo di riflessione, una occasione per orientare la propria vita verso nuovi punti di riferimento meno illusori. Si può trovare un nuovo equilibrio, dando un nuovo significato alla propria vita senza il “vecchio amore”.
Oppure anche il viaggio, senza andare alla ricerca di un nuovo significato per la propria esistenza, può divenire semplicemente lo strumento per dimenticare la fine del proprio amore attraverso la ricerca di nuove esperienze, di nuove attività, di nuove persone. In questo caso, il Mal d’Amore spesso è solo riposto in un angolino della propria coscienza, raramente viene superato.
Il confine tra questi due modi di affrontare questa situazione è spesso molto vicino e confuso.
Quel che è certo, al di là di tutto, è che comunque il viaggio può essere certamente d’aiuto, anche solo per il fatto che allontanarsi da un contesto carico di emotività porta l’individuo ad una prima riflessione più critica ed accurata della proria situazione.
E questo può già essere un primo importante passo.

Alessandro Mereu
Psicologo
Esperto in Psicologia del Turismo 

www.psicologiaturistica.it

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

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DIPENDERE DA UN AMORE IMPOSSIBILE

Cosa bisogna fare per una persona che nasce come una pozzo vuoto senza fondo perchè diventi una persona piena capace di amarsi e sentire l’amore come uno stato di diritto? Quale strategia adottare per affrontare il vuoto e trasformarlo in pieno, e dilatare lo spazio? Dilatare l’amore e la coscienza?

Forse appena consideriamo noi stessi e l’altro come un valore inestimabile, entriamo in un’ottica di spontanea attenzione all’amore ed alla felicità che non dipende mai da nessuno se non dalla nostra attitudine!

L’amore è un attitudine spirituale! Da oriente ad occidente e dall’antichità ad oggi dove ridondano sempre gli stessi messaggi. Quando siamo bambini ci dicono di amare i nostri fratellini, Dio ci dice di amare i nostri fratelli … Per vivere bene è deve avere un amore vero. Ma si può fare dell’amore un dovere?

Nessuno ci ha mai detto che amare è uno stile di vita e che non si compra e non si vende e non si impara: si lascia andare, anche per niente! L’amore è una sorta di volontariato. “…pensavo di voler tanto bene a mia madre ma temevo sempre di perdere il suo affetto. La mia affettività è rimasta per numerosi anni ingabbiata in questo amore/paura, e quindi, troppo preoccupata di essere amata, non ho saputo amare…”

Spesso, innamorarsi vuol dire creare relazioni in cui si cerca solo di riconquistare finalmente la madre o quel padre persi da bambini, quando si anelava uno sguardo, una carezza, un tocco, ed il vuoto invece pervadeva la nostra giornata fatta da fantasie e rifugi romantici su come avremmo voluto vicino nostro padre o nostra madre. Siamo persi anche da adulti in quel vuoto con in più l’illusione di riempire quel vuoto con tanti affetti di tante persone che non vediamo, in quanto specchio di figure mai state presenti come e quanto volevamo. Sperimentiamo ancora la fame. A volte ci fermiamo e ci chiediamo chi è questo Dio/amore impossibile, e dolorosamente sentiamo la paura che Dio possa non esistere. Con un lavoro più profondo possiamo giungere alla conclusione che per amare, dobbiamo iniziare ad amare noi stessi, unica garanzia di sincero amore. Inizia così ad avere un senso il grande comandamento: “ama il tuo prossimo come te stesso” .

Non siamo mai soddisfatti delle prestazioni amorose degli altri, sempre in credito di amore anche a cinquant’anni, non sapendo ancora bene cosa l’altro rappresenta per noi. Per sentirci amati accettiamo spesso inconsapevolmente una grossa manipolazione dei sentimenti. La tensione interiore che si produce per riuscire ad avere l’amore vero che ci spetta, paradossalmente ostacola il libero flusso dell’amore. Così rimaniamo stupiti quando scopriamo il sacrosanto diritto che l’altro ama a suo modo e sol così può farlo: in realtà stiamo scoprendo finalmente che l’altro è un altro e che non è neanche nostro padre o nostra madre.

Esiste qualcuno che sa amare? Certo: ad immagine e somiglianza di qualcuno. Di mia madre o mio padre di altri che ho idealizzato. Cerchiamo così di essere accolti, anziché accogliere, di essere amati anziché cedere nel bisogno altrui che reclama amore. Amare è rivelare all’altro la sua bellezza intrinseca, la sua capacità di essere al mondo, e questi non aspetta altro che la nostra fiducia come dono per questo riconoscimento. Appena guardiamo l’altro come un valore, entriamo in un’ottica di spontanea attenzione che ci lascia vedere quanto amiamo. Questo sguardo è purtroppo offuscato da filtri di giudizi, ostacolato dalla paura di soffrire.

La capacità d’amare è arrugginita rimasta bloccata, ripiegata come una fisarmonica non usata per anni. Come spesso i bambini dopo la nascita di un fratello, che appare come rivale o addirittura come negazione del valore di cui si godeva in quanto primogenito, l’adolescente fa di tutto per conquistare l’affetto del padre, come se dovesse per questo sorpassare in tutto gli altri. Diventa più intelligente degli altri dieci fratelli, nati prima di lui da donne meno amate di sua madre dal padre. Diventa uno dei tanti geni che hanno avuto una vita affettiva di una povertà sconcertante! Viene giudicato probabilmente “senza cuore”, senza capire la disperazione nascosta dietro al suo handicap emotivo. Si estenua per dimostrare quanto lui sia bravo o brava (specialmente ad amare).

Questo personaggio infatti prova ancora il bisogno di valorizzarsi, raccontando questa volta la sua bravura a saper amare. La sua ricerca affannosa di conferma lo spinge ad ostentare amore e quindi a farsi rifiutare. Il baratro diventa ancora più spaventoso. Come può un bambino in cerca di conferme, non essere super obbediente ai genitori? Delusi si continua a dimostrare un essere eccezionale. Dovere a tutti costi farsi non solo accettare ma ammirare. Comprato dal bisogno degli altri che si innamorano di lui. Il bisogno di d’essere amati si incontra per ragioni diverse col bisogno di raccontare la proprio storia all’altro, questo suscita innamoramenti continui che spesso rappresentano semplicemente il bisogno di presentarsi e di raccontarsi per scegliere poi se offrirsi all’altro o meno.

A questo punto la preoccupazione di perfezione non permette di percepire la parte di strumentalizzazione che induce a sedurre l’altro pur di non fallire.

C’è un tempo per “rientrare in sé”. Il momento necessario della riflessione sulla relazione che induce a fare autoanalisi, prendere coscienza di tutto quello che capita, di chi in passato ci ha sempre guidato verso la conferma di “essere” e che ora si riproduce sotto mentite spoglie.

Coloro che non ci hanno ascoltato in tempo ora sono assenti e scegliamo gli altri perché ci ascoltino e confondiamo così l’amore per il bisogno di essere accolti nelle nostre richieste.

È necessario non temere più di rivivere il vuoto iniziale dove c’era l’assenza di un ascoltatore, ma fidarsi della presenza attuale di un Lui o di una Lei reale ed attuale. Iniziare ad aprirsi alle ricchezze della vita, a guardarsi intorno anziché restare fissato sul modo di “provocare” l’amore, in una perpetua tensione angosciosa verso la ricerca della perfezione di chi possa sentire i nostri reclami.

Il cuore si dilata ora nella fiducia di essere un valore per l’altro e per se. La fragilità, dovuta al vuoto in cui abbiamo fluttuato per anni, ora si muta poco a poco in una sicurezza incrollabile, dovuta alla presenza dell’altro che, se pur necessario, non è necessario per la nostra sopravvivenza.

Ancora una volta c’è da dire che per amare fino in fondo, è necessario fare un lavoro su di sé, ed in tal modo che si riesce ancora ad innamorarsi di una persona in carne e ossa. L’alternativa è avere un affettività ripiegata su se stessa, accusando continuamente gli altri di essere inefficaci e ritenendosi prigionieri dell’incomprensione. A contatto con questo ambiente interno, fatto di fantasmi e zone d’ombrai si ritorna ad essere continuamente manipolatori della realtà e inconsapevolmente facciamo pagare al coniuge o addirittura ai figli il vuoto affettivo ed esistenziale subito nella la nostra infanzia. Tuttavia, possiamo uscirne facilmente lasciando fluire l’emozione e lasciando affiorare tutta la nostra sensibilità. Il bambino ferito dall’assenza di conferma e che si era indurito, e che non concedeva di provare più emozioni, si libera dall’asprezza che lo ha spinto a sopportare tutto stringendo i denti per offrirsi, con il suo successo strepitoso, la certezza di essere un valore. La fonte della tenerezza si riapre: è il momento di cedere alla gratuità dell’amore.

È necessario però riconoscere il bisognoso del perdono che mette in grado di aprirsi all’altro che a volte si odia paradossalmente come contro altare dell’amore. L’abbandono dell’amor proprio è più forte di tutti gli altri abbandoni. È un abbandono tra i più duri in quanto deve fare i conti con l’orgoglio, ma una volta che ci si è affrancati le emozioni, anziché restate bloccate per la paura di soffrire, ridestano la sensibilità e si riconquista uno stile di vita, che trasforma la paura in disponibilità per il diverso da se: condizione, la diversità, forse necessaria per un amore veramente sincero.

GUGLIELMO DE MARTINO

Maestro Yoga e Shiatsu

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

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LOVE ADDICTION (DIPENDENZA D’AMORE)

Con il termine inglese ‘ love addiction ‘ si intende la dipendenza affettiva, la quale non è stata ancora classificata come patologia nei diversi sistemi diagnostici come il DSM IV.

Secondo Geddins , la dipendenza affettiva è un disturbo autonomo e presenta le seguenti caratteristiche:

  • l’EBBREZZA : Il soggetto dipendente prova una sensazione di ebbrezza dalla relazione con l’altro, paragonabile a quella del tossicodipendente quando sta andando a prendersi la dose di eroina o altro;
  • La DOSE: il soggetto dipendente trova nell’altro una sorta di dose e cerca così sempre quantità maggiori in termini di presenza e di tempo per stare con lui.

L’aspetto fondamentale, scoperto da Geddins, è che nel dipendente affettivo è maggiormente presente la PAURA rispetto alle altre dipendenze.

Si tratta di una paura schiacciante, che si può riassumere nella terrificante massima del poeta latino Ovidio: “ NON POSSO STARE NE’ CON TE, NE’ SENZA DI TE” . Con te, per via del dolore che si sente nel subire umiliazioni, maltrattamenti e offese; senza di te perchè non si può assolutamente sopportare l’angoscia che si sente al solo pensiero di perdere la persona amata.

Questo ci fa immediatamente rendere conto della immensa sofferenza che può arrivare a provare un dipendente affettivo.

Nella nostra società, si tratta soprattutto di donne, spesso anche di successo, in carriera, ricche e belle; nel guardarle supeficialmente diresti che sono donne arrivate nella carriera, con una vita piena ed appagante. Ma sotto il vestito della superdonna si nasconde la bambina richiedente, autonoma sul lavoro,apparentemente in grado di difendere le proprie idee, ma accompagnata sempre da un senso di insicurezza, così profondo da chiedere continue rassicurazioni, MAI appaganti del tutto.

Si tratta di donne, perchè la componente affettiva appartiene maggiormente al mondo femminile che al maschile, soprattutto per ragioni culturali. Infatti, fin da piccole, le donne sono invitate ad assumere tutta una serie di comportamenti in sintonia con l’affettività, la comprensione dell’altro, l’essere materne, il sacrificio. Insomma, viene loro inviato un messaggio di invito alla dedizione, perchè altrimenti non saranno delle brave moglie e della brave madri.

Riepilogando, i SINTOMI DELLA DIPENDENZA AFFETTIVA sono:

  • paura di perdere l’amore;
  • paura dell’abbandono;
  • paura dell’isolamento e della distanza;
  • paura di mostrarsi per quello che si è;
  • senso di colpa;
  • senso di inferiorità nei confronti del partner;
  • rancore e rabia;
  • coinvolgimento totale e vita limitata;
  • gelosia e possessività.

Si tratta di donne che hanno chiaramente una bassa autostima di se stesse e che si sentono per questo motivo loro le COLPEVOLI, le POCO MERITEVOLI e quindi destinate a non essere ricambiate dell’immenso amore che provano e dimostrano continuamente.

Riprendendo le parole scritte da Robin Norwood , ci possiamo rendere conto quanto ci sia la possibilità della presenza di un nucleo in parte psicotico:

“Quando giustifichiamo i suoi malumori, il suo cattivo carattere, la sua indifferenza o li consideriamo conseguenza di un’infanzia infelice e cerchiamo di diventare la sua terapista, stiamo amando male;

quando non ci piacciono il suo carattere, il suo modo di pensare e il suo comportamento,ma ci adattiamo pensando che se noi saremo abbastanza attraenti e affettuose, lui vorrà cambiare per amore nostro, stiamo amando male;

quando la relazione con l’altro mette a repentaglio il nostro benessere emotivo, e forse anche la nostra salute e la nostra sicurezza, stiamo decisamente amando male.”

‘ HO BISOGNO CHE TU ABBIA BISOGNO DI ME ‘ è un bisogno di sopravvivenza che spinge la donna ad illudersi di cambiare l’altro.

‘ Gli ho mandato dei messaggi per fargli sapere che sto male e che sono disperata, ma lui non mi ha neanche risposto. Perchè fa così? Perchè non mi telefona almeno per sapere qualcosa?’

La donna insegue un uomo INEVITABILMENTE SFUGGENTE, sempre impegnato in qualcosa di più importante di lei, che la maltratta e non teme di perderla, tanto più lui usa questa forma di SADISMO e TRASCURATEZZA, tanto più lei lo insegue, mettendo in atto una forma di masochismo.

La RICERCA INESAUSTA delle CONFERME DELL’ALTRO proviene dall’INCAPACITA’ DI DARSELE DA SE’: l’altro diventa lo SPECCHIO ed il NUTRIMENTO dal quale finisce col DIPENDERE anche se è qualcuno che non ci ama e NON CI MERITA.

La differenza sostanziale con le altre forme di dipendenza è che la dipendenza affettiva si sviluppa nei confronti di una persona e non di un oggetto, come la droga o l’alcool e questo la rende più difficile da riconoscere e da contrastare.

Il dipendente affettivo dedica tutto se stesso all’altro perchè in quello che crede amore la risoluzione a tutti i suoi problemi, che spesso hanno origini antiche, infantili, di ‘vuoti affettivi’. Il partner diventa COLUI CHE LA SALVERA’, quindi lo scopo della sua esistenza, e naturalmente non ne può più fare a meno.

Esaminiamo ora i diversi STILI DI ATTACCAMENTO IN ETA’ ADULTA:

  1. Attaccamento sicuro – l’amore sicuro: il soggetto sicuro ha la capacità di riconoscere le persone alle quali legarsi sentimentalmente. Queste saranno persone altrettanto sicure e insieme saranno consapevoli anche dei momenti di alti e bassi e avranno la capacità di affrontarli insieme. Saranno quindi storie solide, durature.
  2. Attaccamento ansioso ambivalente – l’amore ossessivo: si tratta di persone passionali che pensano sempre di aver trovato la persona giusta. In realtà, si tratta di incontri con persone che presentano proprio quei tratti che loro odiano. Rimangono sempre nella fase dell’innamoramento e quindi la separazione è fortemente ansiogena. Tutto viene vissuto all’estremo. Il rischio di queste relazioni è alto, soprattutto quando si tratta di persone che presentano modelli negativi del sé, non degne di amore, e quindi entreranno facilmente nel tunnel della gelosia, dell’ossessione, della possessività che possono anche condurre a gesti estremi, quali i delitti passionali.
  3. Attacamento evitante/distanziante – l’amore freddo/distaccato: si tratta di persone che soffrono profondamente, perchè non avendo avuto nell’infanzia una base sicura sulla quale fare riferimento, non hanno alcun tipo di sicurezza affettiva. Si tratta di soggetti che hanno un modello del sé come di persona non degna di essere amata, sola, che deve contare solo sulle proprie forze, perchè il modello interno della madre è quello di una madre cattiva che non elargisce alcuna cura e protezione. Per questo, ‘per non correre il rischio di essere rifiutati’, sopprimono la loro emozionalità’.
  4. Attaccamento disorganizzato – l’amore patologico: si tratta di stili di attaccamento che rimandano a storie di abuso o maltrattamento da parte della figura allevante nei confronti del bambino. La conseguenza è che, queste persone, in età adulta, avranno dei modelli interni dell’interpretazione della realtà sempre inquinati e quindi oscurati da una parte di confusione e di mancanza di controllo. Inoltre, sarà presente in loro una visione catastrofica degli eventi. Sono incapaci di scegliere partners affidabili, e quindi rischiano di entrare e farsi poi coinvolgere in relazioni distruttive, con persone violente ed aggressive.

Questa breve descrizione dei vari stili di attaccamento sottolinea l’importanza fondamentale affermata da Freud che riveste l’infanzia e i suoi vissuti nella successiva formazione dei proprio sé e della sua organizzazione. Se, infatti, abbiamo conosciuto nella nostra infanzia esperienze negative che non hanno portato alla strutturazione di un sé sicuro, e non intraprendiamo un percorso di conoscenza di sé per andarci a vedere, naturalmente con dolore, il nostro passato, da adulti, cercheremo incessantemente e inesorabilmente situazioni e persone che ripropongono le nostre antiche relazioni, perchè sono le sole che conosciamo.

Il percorso per arrivare al benessere e alla ‘normale’ esistenza è lungo e tortuoso, prevede periodi di vuoti, sofferenze, solitudini, dove i nostri punti di riferimento, anche se negativi e portatori di sofferenze, spesso anche inconsce, gradualmente vengono a mancare, dandoci una sensazione di confusione e smarrimento difficili da gestire. Ma tutto questo porterà ad una vita finalmente appagante, che mai si poteva anche solo pensare di raggiungere.

Ritornando alle dipendenze affettive, gli ASPETTI PSICOPATOLOGICI sono:

  • disturbo d’ansia di separazione
  • disturbo dipendente di personalità
  • disturbo narcisistico di personalità
  • disturbo borderline di personalità
  • ansia, attacchi acuti di ansia somatizzata
  • autolesionismo
  • depressione
  • amore ossessivo non corrisposto: erotomania.

Naturalmente, possiamo immaginare che la dipendente affettiva troverà sempre partner in qualche modo manipolatori, che approfitteranno della sua totale dedizione e devozione. Questi uomini faranno quindi in modo da mantenere la relazione malata, perchè essi stessi malati, e perchè il cambiamento dell’altro porterebbe ad uno sconvolgimento nella ‘coppia’ che non tollerano perchè è scomodo e non permette più loro di ottenere sempre quello che vogliono.

Possiamo riassumere, attraverso un lungo elenco, le CARATTERISTICHE DEL PARTNER MANIPOLATORE:

. tende a sminuire l’altro come persona;

. cerca di sminuire i suoi successi;

. spesso umilia l’altro in pubblico;

. contraddice in continuazione;

. tende a criticare l’aspetto fisico del partner;

. in una discussione, fa di tutto perchè si accetti la sua opinione;

. racconta spesso bugie;

. recita spesso la parte della vittima;

. adula per ottenere ciò che vuole;

. usa nei confronti del partner l’arma della colpevolizzazione;

. tende a delegittimare il partner nel ruolo genitoriale;

. manipola la realtà a suo favore;

. spesso è aggressivo verbalmente (insulti, parolacce, minacce);

. spesso è aggressivo nei comportamenti;

. è eccessivamente protettivo;

. controlla ogni azione del partner;

. è geloso senza motivo e porta la sua gelosia all’estremo;

. cerca di allontanare il partner dalla sue amicizie e parentele;

. cerca di limitare i movimenti esterni del partner;

. boicotta gli interessi personali del partner;

. tende ad attuare una coercizione sessuale (rapporti intimi non desiderati.

Come possiamo facilmente notare, sono molteplici le caratteristiche appartenenti ai partner manipolatori e, sono quasi certa che, purtroppo, una moltitudine di donne vi ritroverebbe alcune o molte delle caratteristiche del proprio partner.

Sfortunatamente, in un’epoca che ci sembra emancipatoria per le donne, dove si sarebbe raggiunta la fantomatica ‘parità dei sessi’, molte donne si trovano a vivere situazioni e condizioni che farebbero pensare al Medioevo. Persino le nostre nonne esercitavano un potere maggiore al nostro: promettevano ai loro futuri sposi di perdere la loro verginità solo dopo averle sposate. C’era una specie di ‘do ut des’, uno scambio; scambio che molte donne oggi sono incapaci di attuare, perchè chiedere diventa impossibile, perchè ne sono indegne, non valgono abbastanza,’è colpa nostra se lui è così’, e molto altro ancora…

Riguardo le dipendenze affettive, bisogna sottolineare un aspetto molto importante, quello della CODIPENDENZA:codipendenza è quando una persona fa in modo che sia influenzata in modo eccessivo dal comportamento di un altro ed al contempo cerca di controllare in modo eccessivo quello stesso comportamento.

Le CARATTERISTICHE DEL CODIPENDENTE sono:

. concentrano la loro vita sugli altrimenti

. la loro vita dipende dagli altri

. cercano la felicità fuori di sé

. aiutano gli altri invece che se stessi

. desiderano la stima e l’amore degli altri

. controllano i comportamenti altrui

. cercano di cogliere gli altri in errore

. anticipano i bisogni altrui

. attribuiscono agli altri il proprio malessere

. si sentono responsabili del comportamento altrui

. hanno una paura eccessiva di perdere l’altro

. provengono da famiglie con esperienze di codipendenza.

Passiamo quindi ad analizzare i PASSI DEL TRATTAMENTO INDIVIDUALE della dipendenza affettiva:

Primo passo : queste persone sofferenti spesso arrivano a chiedere aiuto perchè percepiscono una sensazione di VUOTO, di perdita di identità, di RABBIA, per la frustrazione di non vedere ricambiata la dedizione, hanno la sensazione di ‘AVERE QUALCOSA CHE NON VA’;

Secondo passo:

1) concordare l’obiettivo terapeutico, ovvero l’autonomia materiale e psichica

2) acquisizione di consapevolezza

3) scoperta di una fragilità che può coesistere con una forza in grado di permettere la visione di un sé reale

4) capacità di migliorare la propria vita

5) svegliarsi dall’incubp

6) aprirsi a nuove possibilità di scelta

7) curarsi la ferita

8)) rispetto per la propria identità

 

Gli OBIETTIVI DELLA TERAPIA INDIVIDUALE

. Convivenza psichica tra bambina e adulta, abbandonando l’ipercriticità verso se stessi.

. adesione ai propri valori

 

Gli OBIETTIVI DELLA TERAPIA DI GRUPPO

. l’esperienza gruppale incoraggia il dare e ricevere.

. confrontare con chi è all’inizio e chi è alla fine facilita il mentalizzare il percorso, i tempi, le modalità di cambiamento.

. hanno grande valore nel gruppo i racconti di sé, l’esperienza, le vicende quotidiane, i piccoli successi.

. nel gruppo viene portata la PUNTA DELL’ICEBERG del proprio dolore, non le parti più profonde.

La vita, per essere appagante, dovrebbe essere un CAMBIAMENTO CONTINUO.

 

IL CAMBIAMENTO

. la sofferenza ha valore mutativo, è una spinta essenziale nella vita, senza la quale non si può operare alcun cambiamento.

. il dolore personale porta alla crisi, che a sua volta porta al cambiamento della vita, dando una possibilità di rivisitazione del sé.

. la donna deve disabituarsi ad un finto amore che provoca sofferenza. Come tutte le dipendenze, comporta il dolore dell’astinenza ed il senso di essere perdute.

. bisogna vivere nella realtà, abbandonando l’idea del bacio del principe che salverà la principessa dalla morte e dalla desolazione.

 

CONCLUSIONI DEL PERCORSO TERAPEUTICO

. Il recupero è possibile se la MOTIVAZIONE a modificarsi è alta;

. ogni energia va posta su questa impresa che è PRIORITARIA su tutto il resto;

. investire DENARO su ciò (la persona dipendente investe energie per il recupero dell’altro), deve così tradurre ciò in necessità di agire per se stessa;

. la guarigione avviene riuscendo a stare in intimità con l’altro, in una relazione paritaria con la capacità di condividere la propria esistenza interiore.

Se riusciamo in tutto ciò, con tutte le difficoltà e sofferenze che attraverseremo, arriveremo all’autonomia.

 

PER CAMBIARE OCCORRE

Ascoltare la voce interiore

allenare il nostro intuito verso noi stessi

mettere in conto il DISSENSO e la DISAPPROVAZIONE degli altrimenti

tollerare l’ansia scaturita dai contrasti con chi ci sta vicino

resistere a rimproveri e a RICATTI AFFETTIVI, senza sentirsi colpevoli ed ingrati

NON TOGLIERE MAI GLI OCCHI DALLA META

NON ESSERE IMPAZIENTI se non si hanno vantaggi e risultati immediati

…ALL’IMPROVVISO CI SI SCOPRE DIVERSE E NON SI SA DETERMINARE QUANDO E’ INCOMINCIATO IL CAMBIAMENTO!

Il cambiamento porta nel tempo all’ABILITA’ DELL’ESSERE INTIMI.

 

LE ABILITA’ DI ESSERE INTIMI

CONOSCERE cosa si sente e cosa si pensa

ASCOLTARE le proprie sensazioni e attribuire SENSO ai propri vissuti

CONDIVIDERE con l’altro parti di sé arricchenti

ASCOLTARE L’ALTRO

TRASCENDERE se stessi per incontrare l’altro

CREARE con l’altro un ponte di FIDUCIA che permette l’ABBRACCIO reciproco, libero ed autentico

mettere la soggettività al servizio della INTERSOGGETTIVITA’, conservando l’UNICITA’ dell’esperienza personale

esprimersi a parole, con il corpo e con il SILENZIO

L’INTIMITA’ è la scelta di donarsi. Si raggiunge se si è raggiunta una autonomia personale, che ci permette di lasciarci andare nella relazione, di ESPORCI, vincendo la paura di mostrarsi vulnerabili;

INTIMITA’ è riconoscere L’ALTRO, la sua identità, il suo spazio psicologico vitale, la sua unicità, una RECIPROCA unicità che permette di regolare distanza e confini;

l’INTIMITA’ è l’INCONTRO , l’abbraccio, il gioco e la CRESCITA

COMUNE, il SILENZIO APPASSIONATO DI OGNI SOLITUDINE.

Dott.ssa Alessandra Paulillo

TRADIRE: L’ALTRA FACCIA DELL’AMORE

Presentazione del libro Tradire: l’altra faccia dell’amore del dott.Pasquale Romeo Edito da Bastogi

Questo scritto nasce un pò sul serio e un pò sul faceto e tende a considerare la coppia in una modalità diversa dal precedente Amore e Caos in cui la valutazione è principalmente sugli aspetti affettivi.

Questo lavoro in un certo senso è anche collegato al primo SOLI SOLI SOLI, si fa riferimento a se stessi, nella vita di coppia ed a tutto ciò che non riusciamo a capire di noi, forse perché non sufficientemente analizzato in solitudine, che ritorna prepotentemente sotto forma di destino, spesso infrangendo la vita di coppia e consengnandoci a situazioni diverse e fuorvianti che sono indispensabili per raggiungere degli aspetti di sé, che invocano, che chiamano, che rappresentano in un certo senso quel grido degli agnelli, il silenzio degli innocenti sapientemente descritto in qualche interpretazione cinematografica.

La scelta dell’argomento come quello del tradimento è perchè in esso è presente una traccia di una vita nascosta, di ciò che spesso facciamo fatica a manifestare e che si cela dentro di noi in varie forme, tanto che solo un.analisi attenta ne può dare pienamente conto.

L’analisi terapeutica ci consente a volte di scoprire parti di noi misteriose che solo con la relazione alchemica, vissuta con l’analista, si svelano nella sua profondità, nelle sue forme più arcane e diventano un modus operandi tanto veemente da costringerci a prendere scelte, o a farci prendere da quello che comunemente chiamiamo destino e che forse corrisponde solo a parti recondite di noi.

Da SOLI SOLI SOLI a AMORE E CAOS ad oggi vi è una visione più scanzonata ed allegra al problema, ed in TRADIRE: l’altra faccia dell’amore si vuole solo trovare delle soluzioni alla mancanza di un senso, a ciò che spesso si muove al di fuori degli orizzonti razionali e spesso diviene misterioso ed insolvibile.

Si troveranno, perciò, degli aspetti teorici relativi al tradimento ed anche molti esempi pratici che mettono in luce attraverso dei commenti, nella nuda maniera, varie forme dello stare con l’altro, che inquietano e svelano ciò che raramente ci soffermiamo a vedere e che rappresenta parte della nostra vita quotidiana.

Questo lavoro nasce dall’intenzione di dare una visione differente al tradimento e fargli acquisire quella rilevanza che ha nella vita comune e che ci appartiene nonostante le nostre resistenze. Forse non è qualcosa da rifiutare da rinnegare da rendere come qualcosa di cattivo e nefasto che fuoriesce dall’umana specie.

Giuda luogo comune del tradimento, di cui si parlerà più avanti, rappresenta colui che è lo strumento perché Gesù venga tradito. Il tradimento di Giuda non è una cosa imprevedibile, fuori dalla quotidianità, ma invece ciò che sembra già previsto nei programmi divini. E’ la necessità che fa esprimere a Gesù la frase: prima che il gallo canti mi tradirai tre volte, proprio ad indicare che lo farai tu Giuda, che sei la persona predestinata ed indispensabile per portare la verità: Dio si è fatto uomo ed è risuscitato. Il Vangelo ci fa riflettere sul tradimento e ci indica la strada della verità che si muove attraverso il tradere, il consegnare parti di se all’altro, affinché nuovi aspetti si realizzino ed ognuno possa trovare o ritrovare ciò che rappresenta la propria vocazione, la verità che vive e vegeta dentro di noi.

Questo lavoro non vuole essere una breve giustificazione al tradimento cosa che farebbe comodo a molti, né un modo per trovare nuove interpretazioni a una pratica che è sempre esistita con l’uomo e è rimasta sempre uguale nei millenni.

Questo breve scritto intende soltanto rimarcare la possibilità che il tradimento ci appartiene, vedi il caso di Giuda, che senza di questi manca qualcosa della nostra umana natura. Una corretta valutazione della tematica del tradimento ci consente di uscire dalle problematiche della colpa e trovare nuovi orientamenti in un campo complesso e pratico come quello degli aspetti psicologici.

Il tradimento nella sua chiave di lettura più vasta altro non è che una ricerca di un senso, un momento nuovo ed iniziatico per riscoprire parti nuove di sé. Mi è sembrato vicino per alcuni aspetti alla ricerca del Graal, alla ricerca della propria individuazione, alla ricerca di aspetti esoterici che sono sempre esistiti con l.uomo per trovare fuori ciò che in realtà noi abbiamo dentro.

Uno dei motivi di questo libello utilizzando il tradimento è forse psicoterapico. Come ogni psicoterapia ognuno di noi si muove alla ricerca di una strada interna, di una vocazione, del raggiungimento delle proprie risorse, della nostra capacità di esprimerci al di fuori delle prigioni della nostra mente.

Una mia paziente stava con un tizio da tanto tempo, ormai erano in procinto di sposarsi, tutto sarebbe accaduto serenamente, almeno per il momento, fino a quando durante la psicoterapia non successe qualcosa, la persona in seduta si accorse che qualcosa di importante non funzionava, che il matrimonio era solo la realizzazione di una spinta distruttiva e così improvvisamente senza accorgersene apparse miracolosamente un nuovo orizzonte una scogliera differente, una nuova grotta, il panorama assunse nuove tinte e la paziente lasciò il suo partner.

A volte improvvisamente si aprono nuovi scenari e tutto ciò che pensavamo appartenesse alla nostra vita cambia e repentinamente, come colui che vede la luce, si aprono nuovi spazi sapienti come in una nuova iniziazione In questa strada la verità è bendata, non si trova se non nel proprio cuore. A volte è necessario capovolgere ogni cosa per la ricerca di particolari significanti. Una valutazione psicoterapica può riuscire a capire ed a comprendere.

Alcuni riti esoterici si avvicinano molto in questa ricerca del luminoso e del divino e l. iniziazione può esprimere la ricerca di una nuova luce nascosta che ognuno di noi si porta dentro di sé se si distacca sufficientemente dai beni materiali.

Il tradimento a volte viene paragonato ad un momento illuminante, la persona con cui si tradisce alla luce, a colui che mette un senso nella propria vita che dà un forma e consente di mettere uno scheletro ad un momento invertebrato della nostra vita.

La luce e la musica sono molto vicine, la luce prende gli occhi, la musica le orecchia la in entrambi i casi nutrono la nostra mente di nuovi panorami.

Dott. Pasquale Romeo

Psichiatra – Psicoterapeuta

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

UNA LETTURA CORPOREA DEL DISTURBO DA DIPENDENZA AFFETTIVA

Come tutti i tipi di disturbi psicologici, anche nel caso dell’addiction è possibile riscontrare nel corpo difficoltà riconducibili alla relazione e la cui regolarizzazione, effettuata anche per mezzo di esercizi fisici, può influire positivamente nel recupero del disturbo specifico.

 

Nello scrivere questo breve articolo non posso fare a meno di alcune brevi premesse che, presentando il mio punto di vista, rendano più facilmente comprensibile quanto andrò dicendo.

Tali premesse sono tanto più necessarie quanto più mi rendo conto di un taglio particolare, e tuttora imperante, nella lettura delle cose psicologiche, nonostante i notevoli cambiamenti che sollecitano una collaborazione tra i diversi punti di vista.

La realtà psicologica è comunemente intesa come il frutto del funzionamento del cervello e quindi è spesso presentata come un epifenomeno. Ora, dato che il modo di considerare le cose psicologiche determina anche il tipo di approccio terapeutico, e quindi il tipo d’intervento che s’intende adottare nel contesto di un disturbo, ed essendo il cervello un continuo processo chimico, diventa facile pensare alla pillola che risolve il problema.

Ebbene, io non credo che quella che definiamo “la mente” sia prodotta dal solo funzionamento cerebrale e non credo che il cervello sarebbe in grado di funzionare senza il corpo; inoltre sono convinto assertore del fatto che sia il corpo a contenere il cervello e che insieme, cioè tutto il corpo, compongono l’essere che siamo nella sua capacità di leggere il reale e di interagire.

Così sono convinto che non esiste il cosiddetto “controllo dell’Io” se non anche nella capacità della persona di controllare gli occhi, il corpo e le sue funzioni integrate. Mentre quello che definiamo il Sé credo che sia relativo al sentimento che accompagna lo svolgimento delle funzioni stesse e che la sua consapevolezza sia molto più antica di quanto non vogliamo ammettere; forse risale a prima della nascita. Perciò penso che il Sé sia precedente alla nascita dell’Io e che ambedue le istanze, le loro funzioni e i processi, sono legate anche alle espressioni corporee e non credo quindi che siano solo aspetti cognitivi e mentali della nostra personalità. Questo vuol dire anche che i disturbi, e quello che definiamo disfunzionale nell’economia psicologica di una persona, deve essere verificabile anche nella dimensione corporea.

Perciò, quando nel corso dell’articolo parlerò dell’Io e delle sue funzioni, farò riferimento al complesso dell’organismo e alla complessità delle sue funzioni, sia psichiche sia fisiche, e le une avranno sempre un legame di rimando nelle altre, nel senso che il fisico è nello psichico e viceversa. Così tutte le istanze che definiamo psicologiche penso che debbano avere un’eco nel corpo allo stesso modo di come tutto ciò che avviene nel nostro corpo è rappresentato nella mente.

In sintesi, penso che ogni tentativo teorico speso nella definizione e analisi di eventuali disturbi debba tenere conto contemporaneamente dei livelli sia corporei che mentali e lo sforzo terapeutico debba a sua volta tenere conto di ambedue le dimensioni.

Questo deve valere anche per la “dipendenza affettiva”.

Spesso il DAP (Disturbo da Attacchi di Panico) è associato, se non addirittura assimilato, al disturbo che si rivela attraverso una difficile costanza dell’oggetto e che è definibile con la sindrome che esso genera. Appunto disturbo derivante da un’eccessiva dipendenza affettiva.

In realtà esistono similutidini e differenze in queste due evenienze come del resto in tante altre manifestazioni; differenze che vanno annotate e di cui sarebbe opportuno tenere conto in un eventuale intervento sia psicologico sia medico.

Come per la dipendenza affettiva, possiamo dire che l’attacco di panico non è una malattia ma il modo di reagire di alcune persone a determinati eventi della loro vita. Allo stesso modo altre persone, piuttosto che con il panico, reagiscono con lo sconforto, l’accoramento e a volte anche con la conversione.

In questi casi sindromici “quasi” simili la distinzione potrebbe essere ricercata nella genesi dei singoli disturbi supponendo sviluppi alternativi che rendano conto più puntualmente di alcuni aspetti.

Proviamo ad ipotizzare comportamenti risalenti ai primi anni dalla nascita.

Ciò che secondo il mio punto di vista ci porta ad accomunare erroneamente il disturbo di dipendenza affettiva al disturbo di panico, dipende dal fatto che ambedue i disturbi hanno un qualcosa a che vedere con la relazione. Infatti ambedue i casi di disturbo sono, dalla relazione e nell’ambito della stessa, scatenati anche quando, in apparenza, non esistono elementi evidenti cui è possibile ricondurre lo scatenamento.

Ciò che invece notiamo immediatamente come differente sono le diverse manifestazioni comportamentali di ansia, nel caso della dipendenza, e destabilizzazione nel caso del panico.

In alcuni casi la destabilizzazione espressa nel panico viene interpretata come un’espressione esasperata dell’incapacità di fare a meno dell’oggetto e quindi a volte, il portatore di panico viene incluso nella categoria dei sofferenti di addiction.

La manifestazione panica penso possa essere ricondotta all’ipotesi formulata nei miei articoli precedenti pubblicati sul sito della LIDAP ai seguenti indirizzi: http://www.lidap.it/ciardiello.html – http://www.lidap.it/ciardiello2.html).

In quegli articoli ipotizzo che il vissuto di panico possa essere ricondotto ad una realtà infantile in cui l’aggressività prodotta dalla frustrazione materna sia rivolta contro l’Io. Nell’addiction invece ho l’impressione che la dinamica infantile si forma intorno alla difficoltà interna del soggetto di pervenire alla costruzione di un Io che possa fare a meno del supporto di un elemento esterno di relazione che funga da “collante”.

In pratica, mentre nel panico l’aggressività derivante dalla disattenzione o dalla fuga o dalla distrazione materna (o della figura primaria di relazione) si rivolge contro l’Io sottraendogli il collante, che normalmente è vissuto come il “dono” che il bambino ha fatto alle figure importanti, nel caso dell’addiction è possibile ipotizzare che quel bambino non è stato in grado di produrre il collante o non è stato messo in grado di produrlo dalle figure di cura. Per cui la funzione di collante delle funzioni dell’Io continuano per tutta la vita ad essere svolte dalle figure significative di volta in volte diverse. È come dire che la persona affetta da questo disturbo continua a “proiettare” nelle/sulle persone che trova significative della sua vita, la capacità aggregante della sua personalità. Capacità che avrebbe dovuto imparare a fare propria in qualità di dono per la figura primaria.

Questa modalità di relazione è appartenuta praticamente a tutti nel corso della propria esistenza. Cioè ognuno di noi ha avuto un momento della propria vita in cui era importante proiettare sugli altri una capacità aggregante; era come un delegare agli altri significativi, il papà, la mamma o altri che si prendevano cura di noi, la responsabilità di ciò che eravamo.

Era da queste persone che ci arrivava la conferma, la rassicurazione, il supporto e l’appoggio di ciò che eravamo e che dovevamo essere.

Nella relazione di fiducia che si costruiva, e si confermava ogni giorno, si specchiava costantemente l’immagine e l’idea di ciò che eravamo e che negli anni ognuno di noi ha imparato a fare propria. Così io oggi probabilmente sono anche ciò che vedevo rispecchiato negli occhi di mia madre quando mi guardava quindi sono, nel contempo, ciò che voglio, ciò che ho voluto ma anche ciò che lei ha voluto che io diventassi e questo specialmente nelle prime fasi della mia esistenza..

Il momento successivo della nostra crescita è quello che vede il bambino acquisire tanta fiducia in sé, anche grazie a questi rimandi familiari, da cominciare a sentire come un requisito proprio e personale la costituzione di un essere unico. Impara a farlo anche appropriandosi gradatamente del comportamento dei genitori che dall’inizio della vita controllano le sue azioni e ne perfezionano i comportamenti. È un po’ come quando impariamo il corretto uso del cucchiaio che da piccoli si realizza con un graduale controllo interiore di volta in volta confermato dai genitori.

Ora, mentre nella manifestazione di panico si può ipotizzare che l’affetto della figura di riferimento è venuto meno dopoche il bambino ha raggiunto la costruzione dell’io, con la definitiva acquisizione della capacità di fornire le singole funzioni dell’Io del materiale aggregante (la “colla” che, per esempio, tiene insieme la capacità del bambino di tenere in mano il cucchiaio e, dall’altro lato, la capacità di compiere un gesto del braccio che porta il cucchiaio alla bocca. La gioia espressa dagli occhi della madre funge da alimento, sostegno e solidificazione per l’acquisizione di questa capacità che è ulteriormente sostenuta, nel bambino, dal desiderio di gratificare con l’autonomia la madre), nel caso dell’action invece si può pensare che la figura di sostegno non abbia operato alcun “tradimento” nei confronti del bambino, ma che, molto più semplicemente, non ha mai stimolato in lui l’acquisizione della capacità aggregante.

I motivi possono essere stati diversi.

La madre (o chi per lei) potrebbe aver avuto bisogno della dipendenza del bambino perché questa la faceva sentire utile, importante e poteva contribuire a dare senso alla sua vita.

Da questo punto di vista non dobbiamo cercare le colpe perché, malgrado l’apparenza, tale atteggiamento è molto più frequente di quanto non si immagini e inoltre non è affatto consapevole. Il bisogno di dare senso a un’esistenza non è solo delle madri e dei padri ma fa parte dell’essere uomini e individui. E un figlio dà un tale senso all’esistenza che a volte ci riempie tutta la testa e ci lasciamo prendere a tal punto da quest’amore da non riuscire più a distinguere la funzionalità di ciò che dovremmo fare ed essere per lui.

D’altro canto invece può essere accaduto che non ci fosse tempo per questo figlio; che gli eventi della vita fossero così esigenti da richiedere tutta l’attenzione di questa madre, che doveva farsi veramente in quattro, per la sopravvivenza.

Situazioni incresciose e di poco alimento (affettivo emozionale ma anche materiale, di cibo vero) possono aver determinato carenze di sostegno (anche fisico quindi) emotivo in relazione proprio ai vissuti di integrazione funzionale dell’Io. Quando questi eventi si presentano nel periodo di maggiore sensibilità evolutiva nella vita di una persona, e distolgono le attenzioni genitoriali da questa dinamica costruttiva, si rischia che il bisogno di supporto aggragante si “incisti” nella personalità di un individuo e si prefiguri come il frattale maggiormente ridondante nella sua vita.

Quali le conseguenze?

A parte gli aspetti psicologici come l’estrema dipendenza dalle figure importanti e il precipitare di crisi depressive reattive, mi sembra interessante il prefigurare la possibilità di far risalire questo disturbo di “mancanza di stabilità” (emotiva?) alla “mancanza di equilibrio”.

Questa lettura del disturbo ci consentirebbe di pensare ad un intervento terapeutico che preveda la disamina di esperienze psicologiche, associate ad esercitazioni anche fisiche, di appoggio, equilibrio, e focalizzazione dell’attenzione.

Queste esperienze, mirate per ogni singola persona e condotte con competenza tecnica, potrebbero rappresentare valide esperienze per dare un senso all’introiezione della capacità di farcela da soli.

Ulteriori suggestioni inerenti l’articolo possono essere sollecitate dalla lettura dei seguenti libri:

Ramachandran V. S., Blakeslee S., “La donna che morì dal ridere”, Saggi Mondadori, 1999.

Lowen Alexander, “Il linguaggio del corpo”, Feltrinelli Ed. XVIII, 1998

Glen O. Gabbard, “Psichiatria psicodinamica”, Raffaello Cortina Ed., 1995.

Dott. Giuseppe Ciardiello

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

RELAZIONI DIPENDENTI O CODIPENDENTI

Le relazioni nella dipendenza dal sesso spesso presentano caratteristiche di uno di due modelli comuni.

Il primo è quello di un dipendente ed un codipendente, con dinamiche in certo qual modo prevedibili.

Il secondo modello frequente è quello di un “dipendente affettivo” ed un individuo “evitante”.

Di seguito si trova una descrizione di entrambi i modelli ed il modo in cui agiscono nella fase di recupero.

Nessuno dei due modelli può essere considerato perfettamente esaustivo nella descrizione di una particolare relazione, ma può essere utile rilevare le loro caratteristiche.

 

MODELLO DIPENDENTE/CODIPENDENTE

Persona

 

Dipendente dal sesso

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Codipendente

Desideri

 

Approvazione

 

Sensazioni d’intensità erotica/ distrazione

 

Un magico attaccamento sessuale che guarirà tutte le ferite

Paure :
Noia/
Senso di vuoto

Vergogna/intimità

 

Andare fuori controllo

 

 

Approvazione attraverso l’essere necessario all’altro,aiutare ed essere aiutati

 

Una relazione sicura

 

Paure:

L’abbandono

 

Vulnerabilità

Attratto da

 

Persone “sessualmente attraenti”

 

Fantasia: Approvazione proveniente dagli altri

 

Altre persone emotivamente stabili che si prendano cura di loro

 

 

 

 

 

 

 

 

Individui che hanno bisogno di genitorialità

(dipendenti o disfunzionali e bisognosi di essere aiutati, così come erano i genitori codipendenti)

 

Comportamenti

 

Sesso impersonale

 

Ricerca di approvazione momentanea con altri “perfetti” che poi si rivelano imperfetti.Ne risultano relazioni seriali e non intime

 

Coinvolgimento in relazioni con codipendenti, ne derivano interessi affettivi al di fuori della relazione

 

 

 

 

 

 

Aiutano le persone in crisi

 

Rimangono nella relazione anche quando chiaramente insoddisfacente

 

Cercano di controllare il comportamento del dipendente, perfino, a volte, rendendo incapace il dipendente di rimanere tale

Sviluppo delle relazioni

 

Arriva a toccare il fondo ed inzia il recupero provando notevole sofferenza

Si volge ad una approvazione romantica dagli altri o ripristina una relazione codipendente, in entrambi i casi senza affrontare adeguatamente i propri problemi d’intimità ed autostima. (In più l’individuo evitante si unisce al gruppo di recupero ma ne rimane ai confini).

La strategia di recupero fallisce, si ha una ricaduta che implica un toccare il fondo ancora più intenso.
Riprende il recupero, più lentamente questa volta, con più attenzione all’auto approvazione, all’intimità non sessuale, ed alla tolleranza di sentimenti di solitudine e vuoto

 

 

Possono voler possedere il dipendente
Divengono frustrati quando il comportamento del dipendente è più estremo di ciò che vogliono, ma rimangono nella relazione perché hanno paura di lasciarla

 

Se il dipendente inizia il recupero, il codipendente può ricercare un nuovo dipendente che apprezza ed ha bisogno delle sue capacità di aiuto

 

 

MODELLO “DIPENDENTE AFFETTIVO”/INDIVIDUO EVITANTE

 

Persona

Dipendente affettivo

Desideri

Sicurezza, approvazione,
“identità” (fusione)

Paure:

La paura più grande è l’abbandono

La paura soggiacente è quella di una sana intimità (nel rapporto il nucleo della persona rimane in realtà isolato).

 

 

 

Attratto da

Individui autonomi che appaiono forti, stabili (spesso evitanti o ossessivo compulsivi, come erano le loro famiglie d’origine)

Comportamenti

Costituire una nuova relazione prima di lasciare quella attuale, formando relazioni – triangolo

Vicinanza subitanea, ricerca di un sentimento “magico”

Idealizzazione del partner

Ossessione sul partner

Parlare ossessivamente con gli altri di “lui” o di “lei”

Mostrare rabbia e sentimenti di rivalsa per essere stati abbandonati

Sviluppo delle relazioni

Nega quanto in realtà si trova costretto e limitato nell’evitante

L’evitante gradualmente diviene distante e si chiude, in qualche modo abbandona la relazione

Il dipendente affettivo mostra rabbia e rivalsa, torna a rivolgersi a relazioni occasionali e sesso di tipo dipendente

 

Il partner si arrende e riprende la relazione oppure il dipendente affettivo instaura una nuova relazione.

Il senso di se’ e l’autostima non si sviluppano, il dipendente affettivo rimane in una posizione dipendente.

Si deve sviluppare la capacità di tollerare la paura ed il disagio perché sia possibile la crescita.

 

 

 

Evitante

 

Vuole unirsi ma non da vicino

Paure:

La paura più grande è l’intimità/coinvolgimento

Può risultare arduo per lui respingere gli altri o dire di no

 

Individui che provvedano ad entusiasmo ed intimità per entrambi

 

Completa ambivalenza. Possono vivere una relazione per il solo fatto di non saper dire di no.

 

Può mostrare un iniziale, tradizionale perseguimento romantico, ma fondamentalmente entra in relazione perché è il dipendente affettivo che procura l’ “energia intima”, può temere di non essere altrimenti in grado di affrontare una relazione.

Mentre il dipendente affettivo richiede sempre più attenzione, l’evitante cerca di accontentarlo, almeno inizialmente.

Infine l’evitante viene sopraffatto dal totale attaccamento e/o dagli eccessivi bisogni del dipendente affettivo, diviene critico ed in ultimo abbandona la relazione.

Percepisce il fallimento della relazione, a volte viene coinvolto in un comportamento dipendente o in relazioni occasionali per allontanarsi, distrarsi o stordirsi.

Può tornare alla relazione per senso di colpa o paura di essere completamente solo oppure muovere ad un nuovo partner.

Il ciclo

abbandono/ritorno

può andare avanti e ripetersi molte volte, specialmente se il dipendente affettivo si rivolge al di fuori della relazione

 I modelli riportati in queste tabelle sono stati descritti da Pia Mellody nel suo libro “Affrontare la dipendenza affettiva” – 1992.

 

Articolo tratto da http://www.healthymind.com/s-relationships.html

Traduzione di Elisabetta Vatielli ( www.myspace.com/elisapoesia )

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

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TIPOLOGIE DEI DIPENDENTI AFFETTIVI (di Susan Peabody)

Introduzione

La dipendenza affettiva è un problema grave. Non solo è “la droga per eccellenza” per molte persone, ma ci sono migliaia di alcolisti e tossicodipendenti in recupero che soffrono di dipendenza affettiva e non ne sono coscienti.

La dipendenza affettiva può essere meno problematica rispetto alla loro dipendenza da droga o alcohol, ma può minare il loro recupero da queste sostanze.

Questo articolo è stato scritto originariamente per l’Associazione “Love Addicts Anonymous” (Dipendenti Affettivi Anonimi) per permettere alle persone di comprendere se soffrano di questo disturbo.

Categorie tipiche di dipendenti affettivi

Dalla prima pubblicazione di “Addiction to love” (Susan Peabody – 1989) non molto è cambiato nel mondo della Dipendenza Affettiva eccetto il modo in cui la consideriamo.

Nel 1989, ciò che sapevamo di questo disturbo emergeva ancora dalle nostre conoscenze sulla Codipendenza. Allora, per molti di noi, Dipendenza Affettiva e Codipendenza erano un’unica cosa. Tuttavia oggi comprendiamo che ciò non è vero.

Il dipendente affettivo codipendente è solo uno dei molti tipi di dipendente affettivo. Per comprendere in modo chiaro come i dipendenti affettivi si differenziano tra loro, ecco un’elenco:

Dipendente Affettivo Ossessivo

Gli OLA (Obsessed Love Addicts) non riescono a lasciar andare il partner, neanche se questi è: non disponibile, a livello emotivo o sessuale, impaurito di impegnarsi, incapace di comunicare, non amorevole, distante, abusivo, indagatore e dittatoriale, egocentrico, egoista, dipendente da qualcosa al di fuori della relazione (hobbies, droghe, alcohol, sesso, un’altra persona, il gioco d’azzardo, lo shopping compulsivo, etc)…

Dipendente Affettivo Codipendente

CLA (Codependent Love Addicts) sono i più ampiamente riconosciuti. Rappresentano un profilo particolarmente comune. Molti di loro soffrono di scarsa autostima ed hanno un modo di pensare, sentire e comportarsi, in certo modo, prevedibile.

Ciò significa che da una condizione di insicurezza e bassa autostima cercano disperatamente di rimanere attaccati alla persona da cui sono dipendenti, manifestando un comportamento codipendente. Questo include: essere permissivi, aiutare, prendersi cura del partner, esercitare un controllo passivo – aggressivo ed accettazione di abbandono ed abusi. In generale, i CLA faranno di tutto per “prendersi cura” dei loro partner nella speranza di non essere lasciati o di essere un giorno ricambiati.

Dipendenti dalla Relazione

Gli RA (Relationship Addicts), a differenza degli altri dipendenti affettivi, non sono più innamorati dei loro partners ma sono incapaci di lasciarli andare, di rinunciare. Solitamente sono così infelici che la loro relazione mina la loro salute, il loro spirito e benessere emotivo.

Anche nel caso in cui i loro partners li picchino o sappiano di essere in pericolo, essi sono incapaci di rinunciare al rapporto. Hanno il terrore di rimanere soli. Hanno paura del cambiamento. Non vogliono ferire o abbandonare i loro partners. Tutto ciò può essere descritto come: “Ti odio, non lasciarmi”.

Dipendenti Affettivi Narcisisti

Gli NLA (Narcissistic Love Addicts) utilizzano il dominare l’altro, la seduzione ed il trattenere l’altro per controllare i propri partners. A differenza dei codipendenti, che sono disposti a tollerare un notevole disagio, i narcisisti non accondiscendono a nulla che possa interferire con la loro felicità.

Sono assorbiti da se stessi e la loro bassa autostima è mascherata dalla loro grandiosità. Inoltre, piuttosto che essere ossessionati dalla relazione, gli NLA appaiono distaccati ed indifferenti. Non sembrano affatto essere dipendenti. Raramente ci si può accorgere che gli NLA siano dipendenti finché il partner non cerca di lasciarli. Allora non saranno più distaccati ed indifferenti. Entreranno in uno stato di panico ed useranno qualsiasi mezzo a loro disposizione per protrarre la relazione, incluso l’uso di violenza.

Molti psicologi hanno rifiutato l’idea che i narcisisti possano essere dipendenti affettivi. Può darsi ciò sia avvenuto perché raramente i narcisisti ricercano un trattamento terapeutico. Tuttavia, se mai capiti di poter vedere come molti narcisisti reagiscono all’abbandono, temuto o reale, ci si accorgerà che certamente essi presentano le caratteristiche del dipendente affettivo.

Dipendenti Affettivi Ambivalenti

Gli ALA (Ambivalent Love Addicts) soffrono di un disturbo di personalità evitante. Non hanno particolari problemi a lasciar andare il partner, hanno invece molti problemi ad andare avanti. Bramano disperatamente l’amore ma allo stesso tempo sono terrorizzati dall’intimità. Questa combinazione di tendenze è agonizzante.

Gli ALA sono a loro volta divisibili in categorie:

Torch Bearers (portatori di una fiamma) sono ALA che sono ossessionati da persone non disponibili. Ciò può avvenire senza che questi compiano alcuna azione (soffrire in silenzio) oppure con la ricerca di contatto con la persona amata.

Alcuni Torch Bearers sono più dipendenti di altri. Questo tipo di dipendenza si nutre di fantasie ed illusioni. E’ anche conosciuta come “amore non corrisposto”.

Sabotatori sono ALA che distruggono le relazioni quando queste cominciano a diventare serie o in qualsiasi momento venga percepita la paura dell’intimità. Ciò può accadere in qualunque momento, prima del primo appuntamento, dopo il primo appuntamento, dopo il rapporto sessuale, dopo che si sia manifestato il timore dell’impegno.

Seduttori Rifiutanti (Seductive Withholders) sono degli ALA che ricercano una persona quando desiderano un rapporto sessuale o compagnia. Quando si sentono impauriti o in pericolo cominciano a rifiutare compagnia, sesso, affetto, qualsiasi cosa li renda ansiosi. Se lasciano la relazione sono soltanto Sabotatori. Se invece continuano a ripetere il modello disponibile/non disponibile sono Seduttori Rifiutanti.

Dipendenti Romantici sono ALA che dipendono da più partners. A differenza dei dipendenti dal sesso, i quali cercano di evitare del tutto il legame, i Dipendenti romantici si legano ad ognuno dei loro partners, in grado diverso, anche se i legami romantici sono brevi ed avvengono simultaneamente.

Con “romantica” intendo una passione sessuale ed una pseudo intimità emozionale. Da notare che, sebbene i Dipendenti romantici si leghino a ciascuno dei propri partners, in vario grado, il loro scopo, insieme alla ricerca dell’intensità delromance e del dramma, è di evitare l’impegno ed il legame su di un piano più profondo con il partner. Spesso i Dipendenti romantici vengono confusi con i Dipendenti dal sesso.

Nota sui Dipendenti Affettivi Ambivalenti:

Non tutti gli evitanti sono dipendenti affettivi. Se si accetta la propria paura dell’intimità e delle interazioni sociali e non ci si lascia attrarre da persone non disponibili o semplicemente si crea un piccolo cerchio sociale, non si è necessariamente dei Dipendenti Affettivi Ambivalenti.

Ma se ci si strugge, anno dopo anno, su di una persona non disponibile o si tende a sabotare una relazione dopo l’altra o si hanno relazioni romantiche occasionali seriali o si avverte la vicinanza solo con un altro evitante, allora si può parlare di Dipendenti Affettivi Ambivalenti.

Combinazioni

Si può scoprire di soffrire di più di un tipo di dipendenza affettiva. Molte di queste categorie si sovrappongono o combinano con altri problemi comportamentali. Per esempio si può avere il caso del codipendente, alcolista, dipendente affettivo. Oppure di un Dipendente Affettivo/Relazionale.

La cosa più importante è identificare il proprio profilo personale per sapere con che cosa ci si stia confrontando.

 

Susan Peabody (http://brightertomorrow.net/index.html)

Traduzione di Elisabetta Vatielli ( www.myspace.com/elisapoesia )

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

IL MASOCHISMO: IL PUNTO DI VISTA PSICOANALITICO

articolo della Dr.ssa Rossella Valdre’
Psichiatra, Psicoterapeuta membro della Società Psicoanalitica Italiana
scarlet@cocco.net

 

I comportamenti di alcune persone e, soprattutto nella sfera sentimentale, di alcune donne, sembrano chiaramente autolesionistici, inutilmente portati alla sofferenza, a volte persino piegati, oltre ogni ragionevolezza, all’umiliazione e al disprezzo da parte del partner. Questi comportamenti e atteggiamenti non sono ovviamente tutti della stessa entita’, ma si situano all’interno di uno spettro, possiamo dire, che va da sporadici e modesti tratti relazionali di sottomissione a veri e propri ‘stili’ comportamentali in cui la persona sembra ricercare, nel rapporto amoroso, tutto cio’ che la fa soffrire.
Come terapeuti, ci si domanda pertanto se tali comportamenti possano rientrare nell’ambito clinico chiamato ‘masochismo’.
Occorre fare un passo indietro. Il termine viene inizialmente usato da Freud (1905, Tre saggi sulla teoria sessuale) per indicare alcune deviazioni sessuali in cui il soggetto cerca, non solo accetta, la sofferenza fisica e psicologica come mezzo per ottenere il piacere, all’interno del registro perverso del sadomasochismo (Freud comprende presto, infatti, che i ruoli possono facilmente ribaltarsi e “laddove vi e’ il masochismo possiamo sempre ritrovare anche il polo opposto, il sadismo”). Questi primi studi di Freud, per quanto gia’ peculiarmente psicoanalitici, risentivano ancora dell’interesse che la scienza medica della fine del secolo scorso nutriva per le deviazioni sessuali, e sono in parte ancora ispirati al famoso trattato di Kraft-Ebing, Psychotapia Sexualis (1886). Freud chiama questa forma di masochismo come erogeno: esso designa quell tipo di persone che, piu’ o meno incosapevolmente, cercano un partner sessuale sadico, che abbia cioe’ caratteristiche opposte alle loro e che infligga dolore e sofferenza, realizzando cosi il rapporto perverso sadomasichistico.
Successivamente, l’interesse di Freud si sposta sull’analisi delle fantasie inconscie che stanno dietro alla posizione di sottomissione (1919, Un bambino viene picchiato), scoprendo che si tratta spesso di fantasie legate al desiderio edipico, nella bambina, di essere amata e sottomessa al padre, e creando cosi’ le basi per la futura suscettibilita’ adulta del masochista nei confronti di figure paterne o che rivestano autorita’. Piu’ avanti ancora, a conclusione del suo pensiero (1924, Il problema economico del masochismo), Freud estende il concetto di masochismo dal ristretto campo sessuale o dallo specifico della fantasia edipica, al comportamento umano piu’ generale e al carattere femminile. Al masochismo del primo tipo, detto appunto erogeno, si aggiunge cosi’ il masochismo morale e quello femminile.
La ricerca inconscia della sofferenza non si limita piu’, quindi, allo scenario sessuale, ma si puo’ estendere allo stile esistenziale globale della persona, caratterizzandone le scelte, le motivazioni, i comportamenti.
Poiche’ dobbiamo sempre tenere presente che la natura e la spinta profonda di un tale assetto psicologico e’ essenzialmente inconscia, noi potremmo avere una persona, ad esempio una donna per restare al nostro argomento, che vive ripetute relazioni sentimentali autolesionistiche ed infelici ma consapevolmente non le vorrebbe, sul piano razionale e cosciente desidera invece, in tutta sincerita’, trovare un partner adeguato a cui non sottomettersi e con cui vivere serenamente. La psicoanalisi ci ha insegnato da tempo che questi due registri, conscio ed incoscio, possono purtroppo convivere in piena contraddizione dentro di noi, portando avanti istanze del tutto diverse e opposte, ad esempio conscientemente possiamo sentirci attratti da A (supponiamo, il successo di una nostra iniziativa), ma inconsciamente remare contro verso B (lo scacco, il fallimento della stessa iniziativa), con il risultato di generare in noi un conflitto psichico inconscio. Lo stesso vale per le relazioni affettive: una persona puo’ consapevolmente ed in totale buona fede desiderare una vita sentimentale costruttiva ed appagante, ma inconsciamente ricercare proprio quel tipo di esperienze o di persone con le quali tali realizzazione e’ impossibile.

Il motore interno del masochismo (parliamo sempre, da ora in poi, di masochismo morale), la forza inconscia che ne costituisce la spinta, Freud la individuo’ nella presenza dell’istinto di morte (1920, Aldila’ del principio del piacere), una pulsione inconscia antitetica alla libido, cioe’ all’istinto di vita, che in queste persone e’ particolarmente elevata, o non sufficientemente fusa, mescolata cioe’ alla libido che ne dovrebbe attutire la distruttivita’, cosicche’ si ritrova libera ad operare all’interno della psiche, causando la ritorsione dell’aggressivita’ verso il Se’ (nel masochismo, appunto) o verso l’oggetto, l’Altro (nel sadismo). Il nostro inconscio e’ abitato da una lotta pressoche’ continua tra istinti di vita e istinti distruttuvi, per Freud (posizione, questa, non condivisa da tutto il corpus psicoanalitico), la notra salute e la nostra capacita’ di costruire legami positivi dipendono dalla prevalenza, in noi, di forze vitali; se prevale l’inconscio istinto di morte, la distruttivita’, di cui il masochismo e’ un’espressione, siamo portati a compiere scelte e comportamenti distruttivi per il nostro benessere, ad esempio con la scelta di relazioni amorose fallimentari e dolorosa (va precisato, naturalmente, che la distruttivita’, in quanto incoscia,non solo puo’ non apparire del tutto dall’esterno, ma puo’ essere mascherata da comportamenti di segno opposto, come e’ il caso si quei temperamenti cosiddetti maniacali sempre portati all’esuberanza e all’ottimismo).
La terza tipologia di masochismo, quello che Freud vedeva come connaturato alla femminilita’ e che chiamo’ pertanto femminile (1931, Sessualita’ femminile), e’ stato oggetto di molte critiche, come e’ noto, ed e’ da ritenersi oggi un concetto piuttosto desueto. Esso si identifica con la posizione femminile passiva, per Freud e alcuni allievi (in particolare Helene Deutch, con Psicologia della donna), legata alla differenza anatomica tra i sessi che vede il maschile in posizione di attivita’ (possessore del pene) e il femminile in posizione di passivita’ (in quanto mancante dell’organo maschile, castrata).

La psicoanalisi moderna ha portato aventi, in parte superandolo, il discorso freudiano, e vede nel masochismo un’origine plurideterminata: vi sono casi in cui effettivamente l’aggressivita’ del soggetto e’ rivolta verso se stesso, con necessita’ di autopunizone e quindi sofferenza masochistica, ma piu’ spesso troviamo casi in cui la ricerca inconscia della sofferenze e dell’umiliazione costituisce la ripetizione, in forma diretta o ribaltata, delle vicende traumatiche infantili. Il bambino o la la bambina che hanno subito traumi, come ad esempio genitori maltrattanti, sadici o trascuranti, possono ricercare lo stesso copione relazionale nella vita adulta, non gia’ per ricerca del piacere o per eccesso di aggressivita’ interna, ma per una sorta di perenne vicinanza all’area traumatica infantile, come se inconciamente si fosse destinati a ripetere, anche nel tentativo di modificare, un vissuto doloroso, e non si riuscisse a fare diversamente.
Siamo cosi’ arrivati al tema di questo sito. Una sofferenza masochistica di origine traumatica inconscia, talora avvertita in parte anche coscientemente, puo’ determinare alcuni dei comportamenti che qui prendono il nome di Mal d’Amore. Si tratta di donne, piu’ spesso, che ‘scelgono’ ripetutamente relazioni amorose frustranti, con uomini inaffidabili, respingenti o maltrattanti, apertamente o subdolamente, che talvolta impongono loro rinuncie, infliggono sofferenze gratuite e le espongono a umilizioni su piu’ versanti della vita, in ogni caso donne che possono essere perfettamente adulte e ‘funzionanti’ in altre aree della loro esistenza, come il lavoro, ma ritrovarsi come costrette, obbligate da una tirannia interna, a vivere relazioni di questo tipo. Come se vivessero in una prigione, talvolta in un lager interiore, di cui non riescono a vedere ne’ i confini, ne’ la via d’uscita.
L’esperienza analitica e psicoterapica rivela spesso, nell’infanzia di queste pazienti, una storia traumatica di deprivazione affettiva, o di violenza e abuso da parte di adulti significativi da cui dipendeva la vita del bambino, irrinunciabile per lui. Il trauma puo’ essere anche apparentemente modesto, ma ripetuto nel tempo (cosiddetto ‘trauma cumulativo’), come ad esempio una madre alternativamente affettuosa e maltrattante, e venire introiettato nella mente del bambino come l’unica realta’ possibile.
Nella mia esperienza clinica, di rado ho constatato la presenza di piacere nel subire maltrattamenti da parte di queste pazienti (sebbene sia possibile, nel tempo, che in via secondaria si instauri una certa erotizzazione della sofferenza, sulla quale occorre poi lavorare in terapia), piu’ spesso l’attaccamento al partner maltrattante o trascurante posa su altre ragioni: l’idea che cosi sara’ piu’ amata, la garanzia fantasticata contro l’abbandono, o perche’ e’ l’unica forma di relazione che conoscono.
Credo che quest’ultimo caso sia particolarmente significativo e meriti la nostra attenzione. Quando una bambina, nella prima infanzia, ha appreso emotivamente che per avere un po’ di attenzione e amore dai genitori doveva sopportarne gli accessi di rabbia, gli sbalzi d’umore, gli abusi o le imprevedibilita’, potra’ essere incosciamente portata nella vita adulta, anche quando non ne sussiste piu’ il bisogno, a ritenere quel tipo di relazione come naturale, l’unica possibile per lei, per lei che non e’ degna di altro.

Dal punto di vista psicoanalitico, e’ dunque importante conoscere a fondo il mondo interno della donna (o dell’uomo) che soffre di questa patologia relazionale, risalire alle radici infantili inconscie dove spesso il trauma e’ stato negato o minimizzato, essendone intollerabile l’elaborazione e l’integrazione con il resto della personalita’, allo scopo di ‘rimettere mano’, insieme al terapeuta, a questo insieme di rappresentazioni interne patogene e dolorose.
Credo sia importante che giunga a queste persone il messaggio che non si tratta di un destino ineluttabile, anche se il percorso puo’ essere talvolta lungo e difficoltoso, ma che noi possiamo sempre, tramite un lavoro psichico, ridare fiato e spazio alle nostre parti vitali, e riparare infine le nostre antiche ferite.
Concludo con una breve vignetta clinica, ad esemplificare la spinosita’ ma anche la potenzialita’ del percorso terapeutico. Una paziente in analisi, che e’ riuscita dopo molte incertezze a divorziare dal marito, un uomo dalla grave personalita’ narcisistico-sadica che la aveva sottoposta ad ogni genere di incuria ed umiliazioni, al progressivo liberarsi di questa penosa sudditanza ha iniziato a provare un profondo senso di spaesamento, quasi di smarrimento di identita’, durato diversi mesi. “Prima sapevo dove stare – disse la paziente – avevo il mio posto…ora non ce l’ho piu’”.
Solo un attento e paziente lavoro terapeutico condiviso puo’ portare questa donna brillante e intelligente, e altre come lei, a ritrovare un suo posto che non sia necessariamente quello della sudditanza ad un oggetto sprezzante e irragiungibile, come lo fu un tempo l’oggetto primario, la madre, ed in seguito tutti i suoi sadici sostituti. Quel posto, riteniamo, e’ necessariamente prima di tutto un luogo terapeutico, di qualsivoglia orientamento, purche’ capace di creare lo spazio per un nuovo discorso condiviso.

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

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